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Dopo aver battuto tutto l'acciaioluce, Rhunön estrasse dal trogolo le lastre - Eragon sentì sulle braccia il calore emanato dal liquido - e le strofinò a una a una con un pezzo di arenaria per rimuovere le scaglie nere che si erano formate sulla superficie. La pulizia portò alla luce la struttura cristallina del metallo, che Rhunön studiò con grande interesse. Divise ulteriormente il metallo per durezza e purezza, secondo le qualità mostrate dai cristalli.
Eragon percepiva ogni pensiero e sentimento di Rhunön, e fu sorpreso dalla vastità delle sue conoscenze; nel metallo l'elfa vedeva cose di cui lui non avrebbe mai sospettato l'esistenza, e i calcoli che faceva in merito al trattamento andavano al di là della sua comprensione. Riuscì persino a cogliere il suo disappunto per come aveva impugnato il martello mentre appiattiva l'acciaio.
Il disappunto di Rhunön aumentò finché non esplose. Bah! Guarda queste ammaccature nel metallo! Non posso forgiare una lama così. Il mio controllo sulle tue braccia e le tue mani non è abbastanza preciso da permettermi di creare una spada degna.
Prima che Eragon potesse intervenire, Saphira disse: Gli attrezzi non fanno l'artista, Rhunön-elda. Di sicuro saprai trovare un rimedio a questo inconveniente.
Inconveniente? sbuffò Rhunön. Non ho più coordinazione di una dilettante. Sono un'estranea in casa di estranei. Continuando a brontolare, si lasciò andare a elucubrazioni mentali incomprensibili per Eragon, poi disse: Be', forse ho una soluzione, ma vi avverto, non continuerò se non riuscirò a mantenere il mio abituale livello di maestria.
Rhunön non spiegò la soluzione né a Eragon né a Saphira, ma una per una sistemò le lastre di metallo sull'incudine e le spezzò fino a ottenere scaglie non più larghe di un petalo di rosa. Raccolta la metà delle scaglie di acciaioluce più duro, le ammucchiò formando un mattone, che poi ricoprì di argilla e corteccia di betulla per tenerlo insieme. Posò il mattone su una grossa pala d'acciaio col manico lungo sette piedi, simile a quelle usate dai panettieri per infilare e togliere il pane dal forno bollente. Appoggiò il piatto della pala al centro della forgia e poi fece indietreggiare Eragon, senza però fargli mollare l'estremità del manico. Poi chiese a Saphira di ricominciare a sputare fuoco, e di nuovo il patio luccicò di un tremolante bagliore azzurro. Il calore era così intenso che Eragon ebbe la sensazione che la sua pelle stesse sfrigolando, e notò che le pietre di granito con cui era costruita la forgia si erano colorate di un giallo brillante.
L'acciaioluce avrebbe impiegato oltre mezz'ora a raggiungere la giusta temperatura in un fuoco di carbonella, ma grazie all'inferno scatenato dalle fauci di Saphira impiegò appena un paio di minuti per diventare bianco incandescente. A quel punto, Rhunön ordinò a Saphira d'interrompere la fiammata, e quando la dragonessa chiuse le fauci, la fucina piombò nell'oscurità.
Pilotato da Rhunön, Eragon tolse la pala dalla forgia e trasportò l'arroventato mattone di metallo coperto di argilla fino all'incudine, dove afferrò un martello e saldò le scaglie di acciaioluce in un solo pezzo. Continuò a battere il metallo allungandolo in una barra, poi lo tagliò in mezzo e lo ripiegò su se stesso, saldando insieme i due pezzi. I tintinnii costanti e regolari del martello sull'acciaio echeggiavano come rintocchi di campane fra gli antichi alberi che circondavano il patio.
Quando il colore dell'acciaioluce da bianco incandescente divenne giallo, Rhunön guidò Eragon perché lo riportasse alla forgia, e di nuovo Saphira lo irrorò con il fuoco scaturito dal suo ventre. Per sei volte Rhunön, attraverso Eragon, arroventò e piegò l'acciaioluce, e ogni volta il metallo diventava più liscio e più flessibile, fino a quando non raggiunse un livello di malleabilità tale che lo si poté piegare senza rischiare che si rompesse.
Mentre Eragon martellava il metallo, ogni movimento dettato da Rhunön, l'elfa cominciò a cantare sia con la voce di lui che con la propria, formando una piacevole armonia che s'innalzava e calava al ritmo dei colpi di martello. Eragon fu percorso da un brivido lungo la schiena quando sentì che Rhunön incanalava un costante flusso di energia nelle parole che pronunciavano, e si rese conto che la canzone conteneva incantesimi per fare, per plasmare e per legare. Con le loro due voci, Rhunön cantava del metallo che giaceva sull'incudine, descrivendone le qualità - alterandole in modi che superavano la comprensione di Eragon - e impregnando l'acciaioluce di una complessa rete d'incantesimi mirati a dargli una forza e una resistenza di molto superiori a quelle di un qualsiasi altro metallo. Rhunön cantava anche del braccio con cui Eragon impugnava il martello e, sotto la gentile influenza della sua nenia, ogni colpo che lei dava con il braccio di lui finiva sul punto desiderato.
Rhunön temprò la barra di acciaioluce dopo averla piegata per la sesta e ultima volta. Ripeté lo stesso procedimento con l'altra metà delle scaglie di metallo duro, forgiando una barra identica alla prima. Poi raccolse i frammenti di metallo più morbido, che piegò e saldò dieci volte prima di ricavarne un cuneo corto e pesante.
A quel punto, Rhunön chiese a Saphira di scaldare per l'ennesima volta le due barre di acciaio più duro. Le appoggiò ancora incandescenti sull'incudine, fianco a fianco, le afferrò entrambe con un paio di tenaglie per ciascuna estremità e cominciò a torcerle l'una sull'altra. Sprizzarono scintille quando prese a martellare le barre attorcigliate per saldarle in un unico pezzo. Rhunön piegò, saldò e allungò la massa di acciaioluce altre sei volte. Quando fu soddisfatta della qualità del metallo, appiattì l'acciaioluce in una spessa lamina rettangolare, tagliò la lamina per il lungo con uno scalpello affilato e piegò ciascuna metà al centro, formando una lunga V poco profonda.
Tutta l'operazione, calcolò Eragon, era durata sì e no un'ora e mezza. Si meravigliò della rapidità di Rhunön, anche se era stato il suo corpo a svolgere il lavoro. Non aveva mai visto un fabbro modellare il metallo con tanta facilità; Horst avrebbe impiegato ore a fare quello che l'elfa sbrigava in pochi minuti. E per quanto fosse impegnativo forgiare, Rhunön continuava a cantare, tessendo una trama d'incantesimi nell'acciaioluce e guidando il braccio di Eragon con infallibile precisione.
Nella confusione di rumori, fuoco, scintille e fatica, mentre Rhunön gli spostava lo sguardo sulla forgia, a Eragon parve di scorgere un terzetto di esili figure ferme ai margini del patio. Saphira confermò il suo sospetto un momento dopo quando disse: Eragon, non siamo soli.
Chi sono? chiese lui.
Saphira gli inviò un'immagine della bassa e rugosa gatta mannara Maud, sotto sembianze umane, in piedi fra due pallidi elfi non più alti di lei. Uno era maschio, l'altra femmina, ed entrambi erano straordinariamente belli, perfino secondo i canoni elfici. I loro volti solenni a forma di goccia avevano un'espressione saggia e innocente al tempo stesso, rendendo impossibile per Eragon giudicarne l'età. La loro pelle emanava un pallido chiarore argenteo, come se i due elfi fossero talmente pieni di energia da trasudarla dalla pelle.
Quando Rhunön si fermò per consentire al corpo di Eragon un breve riposo, lui le chiese chi fossero gli elfi. Rhunön li guardò, permettendo a Eragon di vederli meglio, poi, senza smettere di cantare, col pensiero disse: Sono Alanna e Dusan, gli unici bambini elfi di Ellesméra. Ci fu grande giubilo quando furono concepiti dodici anni fa.
Non somigliano a nessuno degli elfi che ho visto, disse lui.
I nostri bambini sono speciali, Ammazzaspettri. Sono dotati di particolari talenti - di grazia e di potenza - che nessun elfo adulto può sperare di uguagliare. Crescendo, in un certo senso il nostro fiore si avvizzisce, anche se la magia della nostra fanciullezza non ci abbandona mai del tutto.
Rhunön non perse altro tempo a parlare. Fece collocare a Eragon il cuneo di acciaioluce fra le due lastre ripiegate a V, e poi lo martellò finché le lastre non avvolsero quasi completamente il cuneo e i tre pezzi rimasero uniti per attrito. Poi saldò i frammenti insieme e mentre il metallo era ancora incandescente cominciò a trarne un primo abbozzo di spada. Il cuneo morbido costituì l'anima della spada, mentre le lastre più dure ne divennero i lati, i fili e la punta. Quando l'abbozzo fu lungo quasi quanto una spada finita, Rhunön rallentò il ritmo tornando al codolo e ricominciò a martellare lungo la lama, per definire gli angoli e le giuste proporzioni.
Poi chiese a Saphira di scaldare la lama a segmenti di non più di sei o sette pollici alla volta: Rhunön tenne la lama davanti a una delle narici di Saphira, da cui la dragonessa doveva soffiare un unico getto di fuoco. Ogni volta che il fuoco veniva sprigionato, una piccola folla di ombre tremolanti si rifugiava ai margini del patio.
Eragon osservava con stupore le proprie mani trasformare il blocco grezzo di metallo in un elegante strumento di guerra. A ogni colpo la forma della lama si faceva sempre più nitida, come se l'acciaioluce volesse diventare una spada e fosse ansioso di assumere la forma che Rhunön desiderava.
Quando ebbero finito, sull'incudine giaceva una lama lunga e nera che, sebbene non ancora rifinita e completa, irradiava già un senso di morte.
Rhunön permise alle braccia stanche di Eragon di riposare mentre la spada si raffreddava all'aria, poi gli fece portare la lama in un angolo del laboratorio dove aveva sistemato sei diverse pietre da mola e, su di una piccola panca, un vasto assortimento di lime, raschietti e pietre abrasive. Fissò la lama fra due blocchi di legno e passò l'ora seguente a livellare i lati della spada con un coltello a due manici e a rifinire i contorni della lama con le lime. Com'era successo con il martello, ogni passaggio del coltello e ogni sfregamento della lima sembrava produrre un effetto doppio rispetto al normale: era come se gli attrezzi sapessero l'esatta quantità di metallo da eliminare e niente andasse sprecato.
Quando ebbe finito di limare, Rhunön accese un fuoco di carbonella nella forgia e mentre aspettava che le fiamme acquistassero vigore preparò una poltiglia liquida di scura argilla a grana fine, cenere, polvere di pomice e linfa cristallizzata di ginepro. Spalmò l'intruglio sui fili e sulla punta, insistendo lungo la cresta centrale. Quanto più spesso era lo strato di soluzione d'argilla, tanto più lentamente il metallo si raffreddava durante la tempra e, di conseguenza, tanto più morbida risultava quella parte della spada.
L'argilla si illuminò quando Rhunön la fece seccare con un rapido incantesimo. Seguendo gli ordini dell'elfa, Eragon si spostò alla forgia. Appoggiò la spada di piatto sul letto di carbonella ardente e, pompando il mantice con la mano libera, cominciò a tirarla piano piano verso di sé. Una volta che la punta della lama fu uscita dal fuoco, Rhunön la girò e ripeté i movimenti in sequenza. Continuò a rigirare la lama nella brace finché entrambi i fili della spada non divennero arancione e la cresta centrale di un bel rosso acceso. Poi, con un solo movimento fluido, Rhunön sollevò la spada dalla brace, fendette l'aria con la lama d'acciaio scintillante e la immerse nel trogolo d'acqua accanto alla forgia.
Un'esplosione di vapore eruttò dalla superficie dell'acqua, che sibilò, sfrigolò e gorgogliò intorno alla lama. Dopo un minuto l'acqua si placò e Rhunön ritrasse la spada, che aveva assunto un color grigio perla. Rimettendola nel fuoco, portò l'intera lama alla stessa bassa temperatura di prima, in modo da ridurre la fragilità dei bordi, poi la temprò ancora una volta.
Eragon si era aspettato che Rhunön gli lasciasse libero il corpo dopo che aveva forgiato, indurito e temprato la lama, ma con sua grande sorpresa l'elfa rimase nella sua mente continuando a controllare i suoi movimenti.
Rhunön gli fece spegnere la forgia, poi lo riportò alla panca con le lime, i raschietti e le pietre abrasive. Lo fece sedere e, servendosi di pietre a grana sempre più fine, lucidò la lama. Dai ricordi dell'elfa, Eragon apprese che in genere impiegava più di una settimana a levigare una lama, ma grazie alla canzone che cantavano insieme, Rhunön attraverso di lui fu in grado di completare l'opera in sole quattro ore, durante le quali riuscì anche a dotare entrambi i lati della lama di una stretta scanalatura centrale. Via via che l'acciaioluce diventava più liscio, cominciò a rivelarsi la vera bellezza del metallo: in esso Eragon intravide una trama scintillante dove ciascuna riga segnava il confine fra due strati dell'acciaio vellutato. E lungo ciascun filo della spada compariva una tremolante fascia argentata, larga quanto un suo pollice, che dava l'impressione che i bordi ardessero di fiamme di ghiaccio.
I muscoli del braccio destro di Eragon cedettero mentre Rhunön stava coprendo il codolo con un tratteggio decorativo, e la lima che stringeva gli scivolò e gli cadde dalle dita. Eragon si sorprese di quanto era stanco, perché si era concentrato sulla spada a tal punto da dimenticarsi del resto.
Basta così, disse Rhunön, e uscì dalla sua mente senza aggiungere altro.
Sconvolto dalla sua improvvisa assenza, Eragon vacillò sulla sedia e per poco non perse l'equilibrio prima di riconquistare il controllo sulle membra. «Ma non abbiamo finito!» protestò, voltandosi verso Rhunön. La notte gli parve innaturalmente silenziosa senza le note del loro lungo duetto.
Rhunön si alzò dal posto dov'era rimasta seduta per tutto il tempo, a gambe incrociate, appoggiata al palo, e scosse il capo. «Non ho più bisogno di te, Ammazzaspettri. Vai a sognare fino all'alba.»
«Ma...»
«Sei stanco e anche con la mia magia corri il rischio di rovinare la spada se continui a lavorarci. Ora che la lama è pronta, posso occuparmi del resto senza infrangere il mio giuramento, perciò va' in casa mia. Troverai un letto al primo piano. Se hai fame, c'è del cibo nella dispensa.»
Eragon esitò, riluttante ad andarsene, poi annuì, si alzò barcollando dalla panca e si avviò a passi strascicati nella polvere. Quando passò accanto a Saphira, le accarezzò un'ala e le augurò la buonanotte, troppo esausto per dire altro. In risposta, lei gli arruffò i capelli con un caldo soffio d'aria e gli disse: Guarderò e ricorderò per te, piccolo mio.
Eragon si fermò sulla soglia della casa di Rhunön e si volse verso il patio ombreggiato; Maud e i due bambini elfi erano ancora lì. Alzò una mano per salutarli e Maud gli sorrise, scoprendo i denti aguzzi. Eragon si sentì formicolare la nuca quando i bambini lo guardarono: i loro grandi occhi obliqui emanavano un lieve bagliore nel buio. Quando capì che non si sarebbero mossi, Eragon chinò il capo e si affrettò a entrare in casa, desideroso di sdraiarsi su un soffice materasso.
UN VERO CAVALIERE
Svegliati, piccolo mio, disse Saphira. Il sole è sorto e Rhunön è impaziente.
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