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Eragon non si affidò solo alle parole e alle immagini. Da dentro se stesso e da Saphira fece confluire nell'albero una forte corrente di energia: un regalo di buona fede che sperava sarebbe riuscito a risvegliarne la curiosità.

Passarono diversi minuti e ancora l'albero non reagiva, ma Eragon non voleva arrendersi. Le piante, pensò, si muovono a un ritmo più lento rispetto agli umani e agli elfi; c'era da aspettarsi che l'albero di Menoa non rispondesse subito alla loro richiesta.

Non possiamo sacrificare altre forze, disse Saphira. Non se vogliamo tornare dai Varden in tempo.

Eragon annuì e arrestò a malincuore il flusso di energia.

Mentre continuavano a implorare l'albero di Menoa, il sole raggiunse lo zenit e poi cominciò a discendere; le nuvole si gonfiarono, si rimpicciolirono, si rincorsero nel cielo. Gli uccelli sfrecciavano fra gli alberi, gli scoiattoli squittivano irritati, le farfalle svolazzavano da un posto all'altro, e una fila di formiche rosse marciò accanto allo stivale di Eragon trasportando piccole larve bianche.

Alla fine Saphira ringhiò e ogni uccello nei dintorni fuggì terrorizzato. Ne ho abbastanza di star qui a fare tutti questi complimenti! dichiarò. Sono un drago, e non permetterò a un albero di ignorarmi.

«No, aspetta!» gridò Eragon, che aveva percepito le sue intenzioni. Ma Saphira non lo ascoltò. Fatto qualche passo indietro, si accovacciò e affondò gli artigli nella radice dell'albero, poi, con un potente strattone, staccò tre grosse strisce di legno. Vieni fuori e parla con noi, elfa-albero! ruggì. Gettò indietro la testa come un serpente pronto a colpire ed eruttò dalle fauci una colonna di fiamme che avvolse il tronco in una tempesta di fuoco azzurro e bianco. Coprendosi la faccia, Eragon balzò via per sfuggire al calore.

«Saphira, fermati!» urlò, orripilato.

Mi fermerò quando ci risponderà.

Una fitta pioggia di gocce d'acqua si riversò a terra. Guardando in alto, Eragon vide i rami del pino tremare e ondeggiare sempre più forte: l'aria riverberò del gemito di legno contro legno. Nello stesso istante, una gelida brezza gli investì le guance, ed Eragon ebbe l'impressione di sentire un sordo brontolio sotto i piedi. Guardandosi attorno, notò che gli alberi che orlavano la radura sembravano più alti e più inclinati verso l'interno, con i rami contorti che si allungavano verso di lui come artigli.

Eragon ebbe paura.

Saphira... disse, e piegò le ginocchia, pronto a fuggire o a combattere.

Serrando le fauci, Saphira interruppe il getto di fuoco e distolse lo sguardo dall'albero di Menoa. Non appena ebbe scorto l'anello di alberi minacciosi, le sue squame ondeggiarono e si rizzarono come il pelo di un gatto irritato. Ringhiò contro la foresta, volgendo il capo da un lato all'altro, poi dispiegò le ali e cominciò ad allontanarsi dall'albero di Menoa. Presto, sali sulla mia schiena.

Prima che Eragon riuscisse a fare un solo passo, una radice larga quanto il suo braccio spuntò dal terreno e gli si arrotolò intorno alla caviglia sinistra, immobilizzandolo. Radici ancora più grosse sbucarono ai lati di Saphira e le afferrarono le zampe e la coda, inchiodandola sul posto. Saphira ruggì infuriata e inarcò il collo, pronta a sputare fuoco di nuovo.

Le fiamme nella sua bocca tremolarono e si spensero quando una voce risuonò nelle loro menti, un lento sussurro che a Eragon ricordò un fruscio di foglie: Chi osa disturbare la mia pace? Chi osa mordermi e bruciarmi? Ditemi chi siete, così saprò chi ho ucciso.

Eragon si lasciò sfuggire una smorfia di dolore quando la radice gli si strinse ancora di più intorno alla caviglia. Ancora un po' più di pressione e gli avrebbe spezzato l'osso. Io sono Eragon Ammazzaspettri e questa è la dragonessa cui sono legato, Saphira Squamediluce.

E allora morite, Eragon Ammazzaspettri e Saphira Squamediluce.

Aspetta! disse Eragon. Non ho finito di presentarci.

Seguì un lungo silenzio, poi la voce disse: Continua.

Io sono l'ultimo Cavaliere dei Draghi di Alagaësia, e Saphira è l'ultima dragonessa esistente. Siamo forse gli unici che possono sconfiggere Galbatorix, il traditore che ha distrutto i Cavalieri e conquistato metà Alagaësia.

Perché mi hai ferita, drago? sospirò la voce.

Saphira scoprì i denti e rispose: Perché non volevi parlare con noi, elfaalbero, e perché Eragon ha perso la sua spada e un gatto mannaro gli ha detto di guardare sotto l'albero di Menoa quando gli fosse servita un'arma. Abbiamo guardato e guardato, ma non riusciamo a trovarla da soli.

Allora muori invano, drago, perché non ci sono armi sotto le mie radici.

Nel disperato tentativo di far parlare ancora l'albero, Eragon disse: Crediamo che il gatto mannaro intendesse l'acciaioluce, il metallo astrale che Rhunön usa per forgiare le lame dei Cavalieri. Senza di esso non può farmi una spada.

La radura s'increspò di ondulazioni mentre il tappeto di radici si spostava. Il movimento fece scappare fuori dalle tane e dai nascondigli centinaia di conigli, topi, arvicole, toporagni e altre piccole creature che, in preda al panico, andarono a rifugiarsi nel folto della foresta.

Con la coda dell'occhio Eragon vide decine di elfi correre verso la radura, i capelli che fluttuavano al vento come vessilli di seta. Silenziosi come fantasmi, gli elfi si fermarono sotto i rami degli alberi che delimitavano la radura a osservare lui e Saphira, senza fare una mossa per avvicinarsi o soccorrerli.

Eragon stava per chiamare Oromis e Glaedr con la mente, quando la voce tornò a farsi sentire. Il gatto mannaro sapeva il fatto suo. C'è un frammento di acciaioluce proprio ai margini delle mie radici, ma voi non lo avrete. Mi avete morso e bruciato, e io non vi perdono.

L'eccitazione suscitata dalla notizia dell'esistenza del minerale si stemperò nell'angoscia. Ma Saphira è l'ultima dragonessa! esclamò Eragon. Non puoi ucciderla!

I draghi sputano fuoco, mormorò la voce, e un fremito percorse gli alberi intorno alla radura. I fuochi si devono spegnere.

Saphira ruggì ancora e disse: Se non riusciremo a fermare l'uomo che ha distrutto i Cavalieri dei Draghi, lui verrà qui e brucerà la foresta che ti circonda e poi distruggerà anche te, elfa-albero. Però se ci aiuti forse potremo fermarlo.

Un forte stridio riecheggiò nell'aria quando due rami sfregarono fra di loro. Se prova a uccidere le mie amate piantine, allora morirà. Nessuno è forte come l'intera foresta. Nessuno può sperare di sconfiggere la foresta, e io parlo a nome della foresta.

L'energia che ti abbiamo dato non basta a sanare le tue ferite? chiese Eragon. Non ti basta come risarcimento?

L'albero di Menoa non rispose, ma si limitò a esaminare la mente di Eragon scivolando fra i suoi pensieri come un alito di vento. Che cosa sei, Cavaliere? disse l'albero. Conosco ogni creatura che vive in questa foresta, ma non ne ho mai incontrata una come te.

Non sono un elfo né un umano. Sono qualcosa a metà. I draghi mi hanno cambiato durante la Celebrazione del Giuramento di Sangue.

Perché ti hanno cambiato, Cavaliere?

Perché potessi combattere meglio Galbatorix e il suo Impero.

Ricordo di aver sentito un'alterazione nel mondo durante la celebrazione, ma non credevo che fosse importante... Tutto adesso mi sembra poco importante, tranne il sole e la pioggia.

Eragon disse: Guariremo il tuo tronco e la tua radice, se ciò ti soddisfa, ma ti prego, possiamo avere l'acciaioluce?

Gli altri alberi scricchiolarono e gemettero come anime in pena, e poi, fievole e tremolante, la voce tornò: Mi darai ciò che voglio in cambio, Cavaliere dei Draghi?

Sì, disse Eragon sènza esitare. Era pronto a pagare qualsiasi prezzo pur di avere una spada da Cavaliere.

La chioma dell'albero di Menoa si fece immobile e per lunghi minuti nella radura regnò un assoluto silenzio. Poi il terreno cominciò a tremare, e le radici davanti a Eragon presero a contorcersi e a strusciare l'una contro l'altra, perdendo frammenti di corteccia mentre si facevano da parte per sgombrare un piccolo spazio di terra. Dal terreno cominciò a spuntare quello che sembrava un blocco di ferro corroso, lungo circa due piedi e largo un piede e mezzo. Non appena il minerale emerse completamente dal nero e fertile suolo, Eragon sentì una debole fitta al basso ventre. Trasalì e si massaggiò lo stomaco, ma il disagio momentaneo era già svanito. A quel punto, la radice che gli serrava la caviglia si allentò, ritirandosi nel terreno, e lo stesso fecero quelle che trattenevano Saphira.

Ecco il tuo metallo, mormorò l'albero di Menoa. Prendilo e vattene...

Ma... iniziò a chiedere Eragon.

Va'... disse l'albero di Menoa, la voce sempre più fievole. Va'... E la coscienza dell'albero si ritrasse da lui e da Saphira, sprofondando sempre più in se stessa finché Eragon ne riuscì a percepire a stento la presenza. Intorno a loro, i pini minacciosi tornarono nella posizione abituale.

«Ma...» disse Eragon ad alta voce, confuso dal fatto che l'albero di Menoa non gli avesse detto che cosa voleva.

Ancora perplesso, si chinò sul minerale, infilò le dita sotto il masso venato di metallo e lo sollevò fra le braccia, sbuffando per il peso. Stringendolo al petto, volse le spalle all'albero di Menoa e cominciò la lunga camminata verso la casa di Rhunön.

Saphira lo affiancò e annusò l'acciaioluce. Avevi ragione, disse. Non avrei dovuto aggredirla.

Almeno abbiamo ottenuto l'acciaioluce, disse Eragon. E l'albero di Menoa, be', non so che cosa ha ottenuto lei, ma noi abbiamo ciò per cui siamo venuti. Ed è questo che conta.

Gli elfi si allinearono lungo il sentiero che Eragon aveva scelto di seguire, fissando lui e Saphira con un'intensità tale da fargli formicolare la nuca e decidere di affrettare il passo. Gli elfi non dissero una parola, ma continuarono a fissarlo con i loro occhi a mandorla come se stessero guardando un pericoloso animale che si aggirava fra le loro case.

Uno sbuffo di fumo uscì dalle narici di Saphira. Se Galbatorix non ci uccide prima, disse, penso che verrà il giorno in cui ci pentiremo di quello che abbiamo fatto oggi.

LA MENTE SUL METALLO

«Dove l'hai trovato?» esclamò Rhunön, quando Eragon entrò barcollando nel patio della casa e lasciò cadere il masso di acciaioluce ai suoi piedi.

Eragon le raccontò in breve di Solembum e dell'albero di Menoa.

Accovacciandosi davanti al minerale, Rhunön ne accarezzò la superficie butterata; le sue dita indugiarono sulle venature di metallo che screziavano la roccia. «Siete stati molto sciocchi o molto coraggiosi nel mettere alla prova l'albero di Menoa. Non è una con cui si scherza.»

Ce n'è abbastanza per una spada? chiese Saphira.

«Per parecchie spade, se l'esperienza non m'inganna» disse Rhunön, rialzandosi. L'elfa scoccò un'occhiata alla fucina al centro del patio, poi batté le mani, gli occhi ardenti di desiderio e determinazione. «Facciamola, allora! Ti serve una spada, Ammazzaspettri? Benissimo, ti darò una spada come non se n'è mai vista una in Alagaësia.»

«E il tuo giuramento?» chiese Eragon.

«Per adesso non ci pensare. Quando dovete tornare dai Varden, voi due?»

«Saremmo dovuti partire il giorno stesso che siamo arrivati» rispose Eragon.

Rhunön rimase un attimo in silenzio, pensierosa. «Allora dovrò fare in fretta quello che in genere faccio con calma, e dovrò usare la magia per ottenere ciò che altrimenti mi richiederebbe settimane di lavoro manuale. Tu e Squamediluce mi aiuterete.»

Non era una domanda, ma Eragon annuì. «Stanotte non ci riposeremo, ma ti prometto, Ammazzaspettri, che entro domattina avrai la tua spada.» Piegando le ginocchia, Rhunön sollevò senza alcuno sforzo il masso e lo portò alla panca dove c'era la sua scultura abbozzata.

Eragon si tolse la tunica e la camicia per non rovinarle, e al loro posto Rhunön gli diede un panciotto attillato e un grembiule di tessuto trattato in modo da non poter prendere fuoco. Rhunön si vestì in modo simile. Quando Eragon le chiese dei guanti, l'elfa scoppiò a ridere e scosse il capo. «Solo un fabbro maldestro usa i guanti.»

Poi Rhunön lo condusse in una bassa stanzetta, simile a una grotta, incassata in uno dei tronchi che formavano la sua casa. All'interno c'erano sacchi di carbonella e cumuli sparsi di mattoni d'argilla biancastri. Servendosi di un incantesimo, Eragon e Rhunön sollevarono diverse centinaia di mattoni e li portarono fuori, accanto alla fucina, poi fecero lo stesso con i sacchi di carbonella, ciascuno largo quanto il torace di un uomo.

Quando Rhunön ritenne di avere abbastanza materiale, lei ed Eragon costruirono un forno. Era una struttura complessa e, dato che Rhunön si rifiutava di ricorrere troppo alla magia, il progetto sottrasse loro gran parte del pomeriggio. Dapprima scavarono una fossa rettangolare profonda cinque piedi che riempirono con strati di sabbia, ghiaia, argilla, carbonella e cenere, lasciando diversi spazi e canaletti per eliminare l'umidità che altrimenti avrebbe abbassato la temperatura del fuoco. Quando il contenuto della buca ebbe raggiunto il livello del terreno, ci costruirono sopra un trogolo di mattoni, usando come malta una miscela d'acqua e argilla avanzata. Rhunön entrò in casa e ne uscì con una coppia di mantici che collegarono ai fori alla base del forno.

Poi fecero una pausa per bere e mangiare qualche boccone di pane e formaggio.

Dopo il breve ristoro, Rhunön collocò una manciata di ramoscelli nel trogolo, li accese mormorando una parola e quando le fiamme furono bene avviate, mise sul fondo alcuni ciocchi di quercia stagionata. Per quasi un'ora accudì il fuoco, alimentandolo con la cura di un giardiniere che coltiva le rose, finché la legna fu bruciata completamente trasformandosi in un letto di carboni. Allora Rhunön fece un cenno a Eragon e disse: «Adesso!»

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