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Saphira disse: Non prenderla. Se devi portare una spada in battaglia, se la tua vita e la mia dipendono da essa, allora dev'essere perfetta, niente di meno. E poi non mi piacciono le condizioni che Lord Fiolr ha posto per darcela.
E così Eragon rimise Tàmerlein sulla rastrelliera e si scusò con Lord Fiolr spiegando perché non poteva accettare la spada. L'elfo dalla faccia aguzza non parve troppo deluso; al contrario, a Eragon parve di scorgere un lampo di soddisfazione nei fieri occhi di Fiolr.
Dalla dimora della famiglia Valtharos, Eragon e Saphira s'inoltrarono negli oscuri recessi della foresta fino alla galleria di alberi di sanguinella che conduceva al patio centrale della casa di Rhunön. Quando emersero dalla galleria, Eragon sentì il tintinnio di un martello su uno scalpello e vide Rhunön seduta su una panca nella fucina al centro del patio. L'elfa era impegnata a scolpire un blocco di lucido acciaio. Eragon non riuscì a capire che cosa stava realizzando, perché il pezzo era ancora grezzo e impreciso.
«E così, Ammazzaspettri, sei ancora vivo» disse Rhunön senza sollevare lo sguardo dal suo lavoro. La sua voce stridette come una serie di mole dentellate. «Oromis mi ha detto che Zar'roc ti è stata presa dal figlio di Morzan.»
Eragon trasalì e annuì. «Sì, Rhunön-elda. Me l'ha portata via sulle Pianure Ardenti.»
«Bah.» Rhunön si concentrò sul lavoro, battendo il martello sul cesello a una velocità sovrumana. Poi si fermò e disse: «Zar'roc ha trovato il suo legittimo proprietario, dunque. Non approvo l'uso che ne fa... come si chiama? Ah, sì... Murtagh, ma ogni Cavaliere merita una spada adeguata e non riesco a pensare a una spada migliore per il figlio di Morzan che quella dello stesso Morzan.» L'elfa scoccò un'occhiata a Eragon da sotto la fronte rugosa. «Cerca di capirmi, Ammazzaspettri, non avrei avuto nulla in contrario se tu avessi tenuto Zar'roc, ma mi farebbe molto più piacere che tu avessi una spada fatta apposta per te. Zar'roc può averti servito bene, ma non aveva la forma giusta per il tuo corpo. Per non parlare di Tàmerlein. Saresti uno sciocco se credessi di poterla maneggiare.»
«Come vedi, non l'ho presa.»
Rhunön annuì e ricominciò a martellare. «Be', allora bravo.»
«Se Zar'roc è la spada giusta per Murtagh» disse Eragon «allora non sarebbe quella di Brom l'arma giusta per me?»
Rhunön corrugò le sopracciglia. «Undbitr? Perché ti è venuta in mente la spada di Brom?»
«Perché Brom era mio padre» disse Eragon, e provò un brivido nel dirlo.
«Le cose stanno così, dunque?» Mettendo da parte martello e scalpello, Rhunön uscì da sotto la tettoia della fucina e si fermò davanti a Eragon. Era un po' curva per tutti i secoli che aveva passato china sul suo lavoro, e perciò sembrava un pollice o due più bassa di lui. «Uhm, sì, mi pare di vedere una certa somiglianza. Era un tipo schietto, Brom. Diceva quello che pensava senza tanti giri di parole. Mi piaceva molto. Non sopporto com'è diventata la mia razza. Sono tutti troppo cortesi, troppo raffinati, troppo perbene. Ha! Ricordo quando gli elfi ridevano e combattevano come creature normali. Ora sono così controllati che certi sembrano non provare più emozioni di una statua di marmo!»
Saphira disse: Ti riferisci a com'erano gli elfi prima che le nostre razze si unissero?
Rhunön volse il viso accigliato verso Saphira. «Squamediluce. Benvenuta. Sì, parlavo dell'epoca prima del patto fra elfi e draghi. I cambiamenti che ho visto nelle nostre razze da allora si potrebbero credere a stento possibili, ma così è andata, ed eccomi qui, una delle poche ancora in grado di ricordare com'eravamo prima.»
Poi Rhunön tornò a guardare Eragon. «Undbitr non è la risposta ai tuoi bisogni. Brom perse la sua spada durante la Caduta dei Cavalieri. Se non si trova nella collezione di Galbatorix, allora potrebbe essere stata distrutta, o trovarsi sepolta da qualche parte, sotto i resti delle ossa putrefatte disseminate su un campo di battaglia da tempo dimenticato. E se anche qualcuno riuscisse a individuarla, tu non potresti recuperarla in tempo per affrontare i tuoi nemici.»
«E allora che cosa dovrei fare, Rhunön-elda?» chiese Eragon. Le raccontò del falcione che aveva scelto quando si trovava fra i Varden, di come lo aveva rinforzato con gli incantesimi e di quanto era successo nelle gallerie sotto il Farthen Dûr.
Rhunön sbuffò. «No, così non funziona mai. Una volta che una lama è stata forgiata e temprata, puoi anche proteggerla con un'infinità di incantesimi, ma non riuscirai mai a rendere il metallo più resistente. Un Cavaliere ha bisogno di qualcosa di meglio: una lama che resista agli impatti più violenti e alla maggior parte degli incantesimi. No. Bisogna cantare gli incantesimi sul metallo fuso mentre lo si estrae dal minerale, e poi anche mentre lo si forgia, allo scopo di alterare e migliorare la struttura stessa del metallo.»
«Ma come posso procurami una spada simile?» chiese Eragon. «Me ne faresti una tu, Rhunön-elda?»
Le rughe sottili sul volto di Rhunön si fecero più profonde. L'elfa tese un braccio e si massaggiò il gomito; i muscoli dell'avambraccio nudo si contrassero. «Sai che ho giurato di non creare mai più un'arma finché campo.»
«Lo so.»
«Il mio giuramento mi vincola; non posso romperlo, anche se lo volessi.» Continuando a stringersi il gomito, Rhunön tornò alla panca e si sedette davanti alla scultura. «E perché dovrei, Cavaliere dei Draghi? Dimmelo. Perché dovrei liberare nel mondo un'altra sterminatrice d'anime?»
Scegliendo con cura le parole, Eragon disse: «Perché se lo facessi, potresti contribuire alla fine al regno di Galbatorix. Non ti sembra giusto che io lo uccida con una spada da te forgiata, quando è stato con le tue spade che lui e i Rinnegati hanno ucciso così tanti draghi e Cavalieri? Tu odi il modo in cui hanno usato le tue armi. Quale maniera migliore per pareggiare i conti che forgiare lo strumento che segnerà la fine di Galbatorix?»
Rhunön incrociò le braccia e guardò il cielo. «Una spada... una nuova spada. Dopo così tanto tempo, esercitare di nuovo la mia arte per...» Abbassando lo sguardo, sporse il mento verso Eragon e disse: «È possibile, dico possibile, che ci sia un modo per aiutarti, ma è inutile pensarci perché non posso provarci.»
Perché no? chiese Saphira.
«Perché non ho il metallo che mi serve!» ruggì Rhunön. «Non penserete che abbia forgiato le spade dei Cavalieri con un metallo qualsiasi? No! Tanto tempo fa, mentre vagavo nella Du Weldenvarden, m'imbattei nei frammenti di una cometa caduta sulla terra. Erano composti da un minerale metallifero che non assomigliava a niente che avessi maneggiato prima, perciò lo portai con me nella fucina e lo raffinai, scoprendo che la lega d'acciaio risultante era più resistente, più dura e allo stesso tempo più flessibile di qualunque altra di origine terrestre. Chiamai il metallo acciaioluce, per la sua straordinaria brillantezza, e quando la regina Tarmunora mi chiese di forgiare la prima spada dei Cavalieri, usai l'acciaioluce. In seguito, ogni volta che ne avevo l'occasione, setacciavo la foresta in cerca di altri frammenti di metallo astrale. Non ne trovavo spesso, ma quando mi capitava lo mettevo da parte per i cavalieri.
«Col passare dei secoli, i frammenti divennero sempre più rari, finché non cominciai a pensare che non ce ne fossero più. Mi ci vollero ventiquattro anni per trovare l'ultimo giacimento. Con quello forgiai sette spade, fra cui Undbitr e Zar'roc. Dalla Caduta dei Cavalieri ho cercato soltanto un'altra volta l'acciaioluce, ed è stato stanotte, dopo che Oromis mi ha parlato di te.» Rhunön scosse il capo e i suoi occhi acquosi indugiarono su Eragon. «Ho battuto la foresta in lungo e in largo, e ho lanciato molti incantesimi di ricerca e recupero, ma non ho trovato nemmeno una piccolissima scheggia di acciaioluce. Se riuscissimo a procurarcene un po', allora potremmo cominciare a pensare a una spada per te, Ammazzaspettri. Altrimenti questa discussione è superflua.»
Eragon fece un inchino all'elfa e la ringraziò per il tempo che gli aveva dedicato, poi insieme a Saphira lasciò il patio e s'inoltrò nella galleria verde e frondosa di alberi di sanguinella.
Mentre camminavano a fianco a fianco verso una radura da cui Saphira potesse decollare, Eragon disse: Acciaioluce... Dev'essere questo che intendeva Solembum. Dev'esserci dell'acciaioluce sotto l'albero di Menoa.
E lui come lo sapeva?
Forse gliel'ha detto l'albero. Ma che importa?
Acciaioluce o no, disse lei, come faremo a raggiungere qualunque cosa sia nascosta sotto le radici dell'albero di Menoa? Non possiamo tagliarle, e non sapremmo nemmeno da dove iniziare.
Devo pensarci.
Dalla radura vicino alla casa di Rhunön, Saphira ed Eragon sorvolarono Ellesméra per tornare alla rupe di Tel'naeír, dove li aspettavano Oromis e Glaedr. Quando Saphira atterrò, Eragon smontò, e la dragonessa azzurra e il drago dorato balzarono dalla rupe e risalirono a spirale verso il cielo, volando senza una meta precisa, godendo semplicemente l'una della presenza dell'altro.
Mentre i due draghi danzavano fra le nuvole, Oromis insegnò a Eragon a trasportare con la magia un oggetto da un posto all'altro senza che l'oggetto percorresse fisicamente la distanza fra i due punti. «La maggior parte delle forme di magia» disse Oromis «richiede una dose maggiore di energia quanto più è grande la distanza fra te e il tuo obiettivo. Ma la regola non vale in questo particolare caso. Mandare questo sasso che ho in mano dall'altra parte del ruscello richiede la stessa quantità di energia che mandarlo fino alle Isole Meridionali. Per questa ragione, l'incantesimo è utilissimo quando con la magia devi trasportare un oggetto attraverso una distanza così grande che ti ucciderebbe se dovessi farlo nello spazio. D'altra parte è un incantesimo molto debilitante, ed è preferibile evocarlo solo quando tutto il resto ha fallito. Spostare qualcosa di grosso come l'uovo di Saphira, per esempio, ti lascerebbe privo delle forze per muoverti.»
Poi Oromis insegnò a Eragon le parole dell'incantesimo con le diverse varianti, e quando Eragon ebbe memorizzato la formula a un livello di perfezione tale da soddisfare Oromis, l'elfo gli chiese di spostare la piccola pietra che aveva in mano.
Non appena Eragon ebbe pronunciato l'incantesimo, il sasso scomparve dal palmo di Oromis e un istante dopo riapparve al centro della radura in un lampo di luce blu, accompagnato da un forte boato e una vampata d'aria bollente. Eragon trasalì per il fragore, poi si aggrappò al ramo di un albero vicino per non cadere, con le ginocchia che gli tremavano e una sensazione di gelo per tutto il corpo. Con il cuoio capelluto che gli formicolava, guardò il sasso che giaceva in un cerchio d'erba carbonizzata e appiattita e si ricordò di quando aveva visto l'uovo di Saphira per la prima volta.
«Bravo» commentò Oromis. «Ora, sai dirmi perché il sasso ha prodotto quel rumore quando si è materializzato sull'erba?»
Eragon prestò molta attenzione a quello che Oromis gli diceva, ma durante tutta la lezione continuò a riflettere sull'albero di Menoa. Sapeva che anche Saphira ci stava pensando, mentre volava alta nel cielo. Ma più ci pensava, più disperava di riuscire a trovare la soluzione.
Quando ebbe finito d'insegnargli a spostare gli oggetti, Oromis gli chiese: «Visto che hai rifiutato l'offerta di Tàmerlein di Lord Fiolr, tu e Saphira vi tratterrete ancora a lungo a Ellesméra?»
«Non lo so, maestro» rispose Eragon. «Vorrei fare ancora un tentativo con l'albero di Menoa, ma se non ci riesco, allora immagino di non avere altra scelta che tornare dai Varden a mani vuote.»
Oromis annuì. «Prima di partire, torna qui con Saphira un'ultima volta.»
«Sì, maestro.»
Mentre Saphira volava con Eragon in groppa verso l'albero di Menoa, disse: Non ha funzionato prima, perché dovrebbe funzionare adesso?
Perché sì. E poi, hai un'idea migliore?
No, ma non mi piace. Non sappiamo come potrebbe reagire. Ricorda: prima che Linnëa si cantasse nell'albero, aveva ucciso il giovane uomo che l'aveva tradita. Potrebbe ricorrere di nuovo alla violenza.
Non lo farà, se ci sei tu lì a proteggermi.
Uhm.
Levando una debole corrente d'aria, Saphira atterrò su una radice a forma di nocca, a diverse centinaia di piedi di distanza dalla base dell'albero di Menoa. Al suo arrivo, gli scoiattoli che abitavano sull'enorme pino lanciarono acuti squittii per avvertire i fratelli.
Eragon scese sulla radice e si strofinò i palmi sulle cosce, poi mormorò: «Be', non perdiamo tempo.» Con passi felpati risalì la radice fino al tronco, aprendo le braccia per tenersi in equilibrio. Saphira lo seguì più adagio; i suoi artigli scheggiavano e crepavano la corteccia dove camminava.
Eragon si accovacciò su un tratto di legno scivoloso e infilò le dita in una fenditura del tronco per non cadere. Aspettò che Saphira arrivasse, poi chiuse gli occhi, inspirò a fondo l'aria fredda e umida e indirizzò i pensieri verso l'albero.
L'albero di Menoa non fece alcun tentativo per impedirgli di toccare la sua mente, perché la sua coscienza era così vasta e aliena, e talmente intrecciata col resto della vita vegetale della foresta, che non aveva bisogno di difendersi. Chiunque volesse prendere il controllo dell'albero avrebbe dovuto estendere il suo dominio mentale su una parte enorme della Du Weldenvarden, un'impresa che nessun individuo da solo poteva sperare di compiere.
Eragon sentì provenire dall'albero una sensazione di calore e di luce e avvertì la pressione della terra sulle radici nel raggio di centinaia di iarde. Sentì la brezza muoversi nell'intrico di rami, e un rivolo di linfa viscosa che stillava da un piccolo taglio nella corteccia, e ricevette una moltitudine d'impressioni analoghe dalle altre piante che l'albero di Menoa sorvegliava. In confronto alla consapevolezza che l'albero aveva mostrato di possedere durante l'Agaetí Blödhren, adesso sembrava quasi addormentato; l'unico pensiero che Eragon percepì era così lungo e lento che non riuscì a decifrarlo.
Facendo appello a tutte le sue risorse, Eragon inviò un grido mentale all'albero: Ti prego, ascoltami, possente albero! Ho bisogno del tuo aiuto! L'intero paese è in guerra, gli elfi hanno lasciato la sicurezza della Du Weldenvarden, e io non ho una spada con cui combattere! Il gatto mannaro Solembum mi ha detto di cercare sotto l'albero di Menoa quando avessi avuto bisogno di un'arma. Be', quel momento è giunto! Ti prego, ascoltami, o madre della foresta! Aiutami nella mia ricerca! Mentre parlava, Eragon inviò alla coscienza dell'albero immagini di Castigo, Murtagh e delle armate imperiali. Saphira rafforzò quelle immagini con il potere della propria mente, aggiungendo altri ricordi.
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