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Stringendo il bordo freddo del tavolo di pietra dov'era posato il catino, Eragon disse: «Nasuada, per favore. Se non adesso, quando?»
«Presto. Dovete essere pazienti.»
«Presto.» Eragon trasse un profondo respiro, stringendo ancora di più il bordo del tavolo. «Quanto presto, esattamente?»
Nasuada lo guardò accigliata. «Come faccio a saperlo? Per prima cosa dobbiamo conquistare Feinster, poi dobbiamo rendere sicura la campagna circostante e poi...»
«E poi vorrai marciare su Belatona o Dras-Leona, e poi fino a Urû'baen» la interruppe Eragon. Nasuada provò a ribattere, ma lui non la lasciò parlare. «E più vi avvicinerete a Galbatorix, più aumenteranno le probabilità di essere attaccati da Murtagh e Castigo, o anche dal re in persona, e tu sarai ancora più restia a lasciarci andare... Nasuada, io e Saphira non abbiamo le capacità, le conoscenze o la forza per uccidere Galbatorix. E tu lo sai! Galbatorix potrebbe mettere fine a questa guerra quando vuole, se decidesse di uscire dal suo castello per affrontare i Varden in campo aperto. Io e Saphira dobbiamo parlare con i nostri maestri. Loro possono dirci da dove deriva il potere di Galbatorix, e forse mostrarci qualche trucco che ci permetta di sconfiggerlo.»
Nasuada abbassò lo sguardo, studiandosi le mani. «Castigo e Murtagh potrebbero distruggerci mentre voi siete lontani.»
«Ma se non andiamo, Galbatorix ci distruggerà quando raggiungeremo Urû'baen... Non potete aspettare qualche giorno prima di attaccare Feinster?»
«Possiamo, ma ogni giorno che restiamo accampati davanti alle mura della città ci costerà delle vite umane.» Nasuada si massaggiò le tempie con la base dei palmi. «Mi stai chiedendo molto in cambio di una ricompensa incerta, Eragon.»
«La ricompensa sarà anche incerta» osservò lui, «ma la nostra rovina è inevitabile se non facciamo almeno un tentativo.»
«Dici? Io non ne sono così sicura. Comunque...» Per un lungo, inquietante minuto, Nasuada rimase in silenzio, lo sguardo perso oltre lo specchio. Poi annuì, come per confermare qualcosa a se stessa, e disse: «Posso ritardare l'arrivo a Feinster di due o tre giorni. Ci sono diversi villaggi che possiamo conquistare prima. Una volta raggiunta la città, posso darti altri due o tre giorni mentre i Varden costruiscono le macchine d'assedio e preparano le fortificazioni. Nessuno sospetterà niente di strano, ma dopo dovrò attaccare Feinster, non fosse altro perché ci servono i loro viveri. Un esercito che indugia nel territorio nemico è un esercito che muore di fame. Nella migliore delle ipotesi, posso concederti sei giorni, o forse soltanto quattro.»
Mentre Nasuada parlava, Eragon aveva fatto qualche rapido calcolo. «Quattro giorni non bastano» disse. «E probabilmente nemmeno sei. Saphira ha impiegato tre giorni per volare qui nel Farthen Dûr, e questo senza mai fermarsi e senza portare il mio peso. Se le mappe che ho studiato sono precise, c'è la stessa distanza fra qui ed Ellesméra, forse anche di più. E la stessa fra Ellesméra e Feinster. E con me in groppa, Saphira non sarà in grado di coprire la distanza nello stesso tempo.»
No, infatti, gli disse Saphira.
Eragon continuò. «Nella migliore delle ipotesi ci metteremmo una settimana per raggiungervi a Feinster, e anche così non potremmo restare a Ellesméra che per una manciata di minuti.»
Un'espressione di profonda stanchezza solcò il volto di Nasuada. «Dovete per forza volare fino a Ellesméra? Non basterebbe divinare i vostri maestri una volta oltrepassate le barriere magiche che proteggono i confini della Du Weldenvarden? Il tempo risparmiato sarebbe fondamentale.»
«Non lo so, possiamo provarci.»
Nasuada chiuse gli occhi per un istante, poi, con la voce arrochita dalla stanchezza, disse: «Cercherò di ritardare il nostro arrivo a Feinster di quattro giorni... Voi potete andare a Ellesméra oppure no: lascio a voi la decisione. Se andate, allora restate il tempo necessario. Hai ragione, Eragon, a meno che non troviate un modo per sconfiggere Galbatorix non c'è alcuna speranza di vittoria. Ma non dimenticare il tremendo rischio che corriamo, le vite dei Varden che sacrificherò per darvi il tempo che vi serve, e quanti altri Varden moriranno se cingeremo d'assedio Feinster senza di voi.»
Eragon annuì, serio. «Non lo dimenticherò.»
«Lo spero. Ora andate! Non perdete tempo! Volate. Volate! Saphira, vola più veloce di un falco in picchiata e non lasciare che niente ti rallenti.» Nasuada avvicinò la punta delle dita alle labbra e poi le premette sull'invisibile superficie dello specchio. «Buon viaggio, e che la fortuna vi assista, Eragon, Saphira. Se ci rivedremo, temo che sarà sul campo di battaglia.»
Con un fruscio di stoffe, Nasuada scomparve dalla loro vista. Eragon sciolse l'incantesimo e l'acqua nel catino tornò limpida.
♦ ♦ ♦
LA FUSTIGAZIONE
Roran sedeva con la schiena rigida e lo sguardo perso oltre le spalle di Nasuada, fisso su una piega nella parete di tessuto cremisi del padiglione.
Sentiva gli occhi di Nasuada su di sé, ma si rifiutava d'incontrarli. Mentre il silenzio si faceva sempre più opprimente, pensò alle cose terribili che avrebbero potuto succedergli. Le tempie gli pulsavano con un'intensità febbrile. Quanto avrebbe voluto poter lasciare l'atmosfera pesante della tenda e respirare l'aria fresca là fuori.
Alla fine Nasuada disse: «Cosa devo fare con te, Roran?»
Lui raddrizzò ancora di più la schiena. «Ciò che desideri, mia signora.»
«Una risposta ammirevole, Fortemartello, ma non risolve in alcun modo il mio imbarazzo.» Nasuada bevve un sorso di vino da un calice. «Per due volte hai disobbedito a un ordine diretto del capitano Edric. E tuttavia, se non lo avessi fatto, né tu, né lui, né il resto della compagnia sareste sopravvissuti per raccontarlo. D'altro canto il tuo successo non cambia il fatto che hai disobbedito. Tu stesso hai ammesso di aver compiuto consapevolmente un atto d'insubordinazione, e io devo punirti se voglio mantenere la disciplina fra i Varden.»
«Sì, mia signora.»
Nasuada si rabbuiò. «Dannazione, Fortemartello! Se non fossi il cugino di Eragon, e se la tua mossa fosse stata anche solo un briciolo meno efficace, ti farei impiccare per cattiva condotta.»
Roran deglutì, immaginando il cappio che gli stringeva il collo.
Nasuada tamburellò sul bracciolo dello scranno, accelerando via via il ritmo. Poi s'interruppe di colpo e disse: «Desideri continuare a combattere con i Varden?»
«Sì, mia signora» rispose lui senza esitazione.
«Che cosa sei disposto a sopportare per rimanere nel mio esercito?»
Roran non si soffermò a riflettere sulle implicazioni di quella domanda e rispose di getto: «Qualunque cosa, mia signora.»
La tensione sul volto di Nasuada si allentò. La regina annuì, con aria soddisfatta. «Speravo che dicessi così. La tradizione e i precedenti mi lasciano solo tre alternative. Uno, posso impiccarti, ma non lo farò... per svariate ragioni. Due, posso infliggerti trenta frustate e poi espellerti dalle file dei Varden. Tre, posso infliggerti cinquanta frustate e tenerti nel mio esercito.»
Cinquanta frustate non sono molte più di trenta, pensò Roran, cercando di farsi coraggio. Si inumidì le labbra. «Sarò fustigato dove tutti potranno vedere?»
Le sopracciglia di Nasuada si inarcarono appena. «Non c'è posto qui per il tuo orgoglio, Fortemartello. La punizione dev'essere dura per scoraggiare eventuali emuli del tuo gesto, e dev'essere pubblica perché tutti i Varden comprendano il messaggio. Se sei intelligente anche solo la metà di quanto sembri, quando hai disobbedito a Edric sapevi che la tua decisione avrebbe avuto delle conseguenze e che quelle conseguenze non sarebbero state affatto piacevoli. La scelta che devi fare adesso è semplice: vuoi restare coi Varden o abbandonare i tuoi amici e la tua famiglia per andartene per la tua strada?»
Roran alzò il mento di scatto, offeso dal fatto che lei mettesse in dubbio la sua parola. «Non me ne andrò, Lady Nasuada. Per quante frustate tu mi possa infliggere, non potranno mai essere tanto dolorose quanto lo è stato perdere la mia casa e mio padre.»
«Già» disse Nasuada in tono sommesso. «Non potranno... Uno degli stregoni del Du Vrangr Gata assisterà alla fustigazione e dopo si prenderà cura di te, per evitare che i colpi ti causino danni permanenti. Ma non ti guarirà completamente e tu non potrai ricorrere a nessun altro mago perché lo faccia.»
«Capisco.»
«La tua punizione avrà luogo non appena Jörmundur avrà radunato le truppe. Fino ad allora, resterai sotto sorveglianza in una tenda vicina al palo delle fustigazioni.»
Roran fu contento di sapere che non avrebbe dovuto aspettare troppo a lungo: non voleva essere costretto a tormentarsi per giorni al pensiero di ciò che lo aspettava. «Mia signora» disse, e lei lo congedò con un cenno del dito.
Girando sui tacchi, Roran uscì dal padiglione. Non appena emerse all'aria aperta, due guardie lo affiancarono. Senza rivolgergli uno sguardo né una parola, lo scortarono fino a una piccola tenda vuota, non troppo lontana dall'annerito palo delle fustigazioni, piantato sopra una leggera altura ai margini dell'accampamento.
Il palo era alto sei piedi e mezzo, e nella parte alta era inchiodata una grossa traversa dove venivano legati i polsi dei prigionieri. La traversa era solcata dalle unghiate degli uomini che erano stati fustigati prima di lui.
Roran si costrinse a distogliere lo sguardo, poi chinò il capo per entrare nella tenda. Dentro c'era soltanto uno sgabello di legno consunto. Si sedette e si concentrò sulla respirazione, deciso a mantenere la calma.
Col passare dei minuti cominciò a sentire il rimbombo degli stivali e il tintinnio delle cotte di maglia dei Varden che si radunavano intorno al palo delle fustigazioni. Roran immaginò migliaia di uomini e donne che lo fissavano, compresi gli abitanti di Carvahall. Il suo cuore accelerò; un velo di sudore gli coprì la fronte.
Mezz'ora dopo, la maga Trianna entrò nella tenda e lo costrinse a spogliarsi per restare solo in pantaloni. Roran provò un forte imbarazzo, anche se la donna rimase impassibile. Trianna lo esaminò da capo a piedi, ed evocò perfino un incantesimo di guarigione per la sua spalla sinistra, dove il soldato gli aveva conficcato il dardo della balestra. Poi lo dichiarò idoneo a sostenere la punizione e gli diede una camicia di tela grezza da indossare al posto della sua.
Roran aveva appena infilato la testa nella camicia quando Katrina entrò nella tenda. Quando la vide, Roran fu pervaso da un misto di gioia e di terrore.
Katrina lo guardò, poi, facendo un inchino, si rivolse a Trianna. «Per favore, posso parlare con mio marito da sola?»
«Certo, aspetterò qui fuori.»
Una volta uscita Trianna, Katrina corse da Roran e gli gettò le braccia al collo. Lui ricambiò il suo abbraccio con la stessa intensità, dato che non l'aveva ancora vista da quando era rientrato all'accampamento.
«Oh, quanto mi sei mancato» gli sussurrò Katrina all'orecchio. «Anche tu» mormorò lui.
Si separarono quel tanto da potersi guardare negli occhi. Katrina si accigliò. «Non è giusto! Sono andata da Nasuada e l'ho implorata di perdonarti, o almeno di ridurre il numero di frustate, ma lei non ha voluto concedermelo.»
Facendo scorrere le mani lungo la schiena di Katrina, Roran disse: «Avrei preferito che non l'avessi fatto.»
«Perché?»
«Perché ho detto che sarei rimasto con i Varden e non mi rimangerò la parola data.»
«Ma non è giusto!» esclamò Katrina, afferrandolo per le spalle. «Carn mi ha detto che cosa hai fatto: hai ucciso quasi duecento soldati da solo, e se non fosse stato per il tuo eroismo nessuno degli uomini con te sarebbe sopravvissuto. Nasuada dovrebbe ricompensarti con regali ed elogi, non farti frustare come un criminale comune!»
«Non importa se è giusto o sbagliato» disse Roran. «È necessario. Se mi trovassi nella posizione di Nasuada, avrei dato lo stesso ordine.»
Katrina rabbrividì. «Ma cinquanta frustate... Perché devono essere così tante? C'è chi è morto per essere stato frustato così tanto.»
«Doveva avere il cuore debole. Non preoccuparti; ci vorrà ben altro per uccidermi.»
Un sorriso forzato affiorò sulle labbra di Katrina, poi le sfuggì un singhiozzo e premette il volto contro il petto di lui. Roran la cullò fra le braccia, accarezzandole i capelli e rassicurandola come poteva, anche se non si sentiva meglio di lei. Dopo qualche minuto udì lo squillo di un corno fuori della tenda e capì che gli restava poco tempo. Sciogliendosi dall'abbraccio di Katrina, disse: «C'è una cosa che voglio tu faccia per me.»
«Cosa?» chiese lei asciugandosi gli occhi.
«Torna nella nostra tenda e non uscire finché non avranno finito di frustarmi.»
Katrina parve sconvolta da quella richiesta. «No! Non ti lascerò... non adesso.»
«Ti prego» disse lui. «Non devi guardare.»
«E tu non dovresti essere frustato» ribatté lei.
«Ora basta. So che vorresti starmi accanto, ma riuscirò a sopportare meglio tutto quanto sapendo che tu non sei lì a guardarmi... me la sono cercata, Katrina, e non voglio che anche tu soffra.»
L'espressione di lei si fece tesa. «Sapere che cosa ti succederà mi farà soffrire ovunque io sia. Però... farò come mi chiedi, ma solo perché ti aiuterà a sopportare questa prova terribile... Sai che mi farei frustare al tuo posto, se potessi.»
«E tu sai» disse lui, baciandola sulle guance «che io non lo permetterei mai.»
Le lacrime ricomparvero negli occhi di Katrina. Attirò Roran a sé, stringendolo con tanta forza da soffocarlo.
Erano ancora stretti nell'abbraccio quando entrò Jörmundur insieme a due Falchineri. Katrina si separò da Roran e, dopo aver rivolto un inchino a Jörmundur, senza dire una parola scivolò fuori della tenda.
Jörmundur fece un cenno al prigioniero. «È ora.»
Roran annuì e si alzò. Jörmundur e le guardie lo scortarono fino al palo delle fustigazioni. Passarono fra la folla di Varden, dove ogni uomo, donna, nano e Urgali aspettava con la schiena rigida e le spalle dritte. Data un'occhiata all'esercito riunito, Roran prese a fissare l'orizzonte e fece del suo meglio per ignorare gli spettatori.
Le due guardie gli alzarono le braccia sopra la testa e gli legarono i polsi alla traversa. Nel frattempo Jörmundur si piazzò davanti al palo ed estrasse un cavicchio di legno foderato di cuoio. «Tieni, mordi questo» disse a bassa voce. «Ti aiuterà.» Riconoscente, Roran aprì la bocca e gli permise di sistemargli il morso fra i denti. La pelle conciata aveva un sapore amaro, come di ghiande verdi.
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