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«Forse no» rispose Roran, fra un sorso di vino e l'altro. «Ma è probabile che sia l'unico sopravvissuto.» Sorrise, mentre Carn rideva. Roran scoccò un'occhiata agli Urgali che si erano stretti intorno a Yarbog e gli parlavano con bassi grugniti, mentre due gli pulivano il corpo dal grasso e dallo sporco. Anche se gli Urgali avevano l'aria avvilita, per quello che Roran poteva giudicare non gli sembravano arrabbiati o risentiti, così sperò che non gli avrebbero più creato problemi.
Malgrado il dolore, Roran era felice del risultato. Questo non sarà l'ultimo combattimento fra le nostre razze, pensò. Ma se riusciamo a tornare all'accampamento dei Varden senza altri problemi, gli Urgali non infrangeranno l'alleanza, per lo meno non a causa mia.
Dopo aver bevuto l'ultimo sorso, Roran richiuse l'otre di vino e lo restituì a Carn, poi gridò: «Non state lì a belare come pecore e finite di fare l'elenco di quello che c'è in quei carri! Loften, raduna i cavalli dei soldati, se non si sono già allontanati troppo! Dazhgra, occupati dei buoi. Svelti! Castigo e Murtagh potrebbero essere già diretti qui. Forza, muovetevi!
«Carn, dove diamine sono finiti i miei vestiti?»
♦ ♦ ♦
GENEALOGIA
Il quarto giorno dopo aver lasciato il Farthen Dûr, Eragon e Saphira arrivarono a Ellesméra. Il sole splendeva alto su di loro quando apparve il primo degli edifici della città - una stretta torre a spirale dalle finestre luccicanti che si ergeva fra tre pini ed era stata ricavata dai loro rami intrecciati. Al di là della torre rivestita di corteccia, Eragon individuò le diverse radure sparse che indicavano il luogo dove sorgeva la capitale degli elfi.
Mentre Saphira planava sulla superficie irregolare della foresta, Eragon cercò la coscienza di Gilderien il Saggio che, in qualità di depositario della Bianca Fiamma di Vàndil, proteggeva gli elfi di Ellesméra dai nemici da oltre due millenni e mezzo. Proiettando i propri pensieri nell'antica lingua verso la città, chiese: Gilderien-elda, possiamo passare?
Una voce calma e profonda risuonò nella sua mente. Potete passare, Eragon Ammazzaspettri e Saphira Squamediluce. Finché manterrete la pace, siete i benvenuti a Ellesméra.
Grazie, Gilderien-elda, disse Saphira.
I suoi artigli sfiorarono le nere chiome degli alberi alti trecento piedi mentre scivolava sopra la città di pini diretta verso il pendio dall'altro lato di Ellesméra. Nella filigrana di rami, Eragon colse sprazzi di edifici di legno vivente, aiuole variopinte di fiori in boccio, ruscelli d'argento, il bagliore ramato di una lanterna senza fiamma e, una o due volte, il pallido volto di un elfo che guardava in su.
Inclinando le ali, Saphira volò rasente al pendio fino a raggiungere la rupe di Tel'naeír. Il bianco promontorio di nuda roccia si ergeva a mille piedi di altezza sulla foresta e aveva un raggio di una lega. Saphira virò a destra e volò verso nord lungo il crinale di pietra, battendo le ali due volte per mantenere la velocità e l'altitudine.
Una radura erbosa comparve ai margini della rupe. Sullo sfondo di alberi spiccava una modesta casetta a un solo piano, ricavata da quattro pini. Un allegro, gorgogliante ruscello scorreva dalla foresta muscosa, lambendo le radici di uno dei pini prima di scomparire nuovamente nella Du Weldenvarden. E raggomitolato accanto alla casa c'era il drago dorato, Glaedr: imponente, sfolgorante, le zanne d'avorio grandi quanto il petto di Eragon, gli artigli taglienti come falci, le ali ripiegate morbide come pelle di daino, la coda muscolosa lunga quasi quanto l'intera Saphira, e l'occhio visibile che scintillava come uno zaffiro stellato. Il moncherino della zampa davanti era dall'altra parte, nascosto dal corpo. Davanti a Glaedr era stato sistemato un tavolino rotondo con due sedie. Oromis sedeva sulla sedia più vicina al drago, i capelli argentei che luccicavano come metallo al sole.
Eragon si chinò sulla sella mentre Saphira s'impennava per rallentare. La dragonessa atterrò con un sobbalzo sulla verde distesa erbosa e fece qualche altro passo, le ali tirate all'indietro, prima di fermarsi.
Con le dita intorpidite dalla stanchezza, Eragon si affannò a sciogliere le cinghie che gli stringevano le gambe, poi si sporse per scendere dalla zampa di Saphira, ma prima che riuscisse a posare un piede a terra, le ginocchia gli cedettero e scivolò. Alzò le mani per proteggersi il volto e cadde bocconi, graffiandosi lo stinco su un sasso nascosto nell'erba. Con un grugnito di dolore e le membra anchilosate come quelle di un vecchio fece per rialzarsi.
Una mano gli apparve davanti.
Eragon alzò lo sguardo e vide Oromis che lo sovrastava, il volto senza tempo illuminato da un debole sorriso. Nell'antica lingua, il vecchio elfo disse: «Bentornato a Ellesméra, Eragon-finiarel. E anche a te, Saphira Squamediluce, ben tornata. Bentornati tutti e due.»
Eragon gli prese la mano e Oromis lo trasse in piedi senza il minimo sforzo. Sulle prime Eragon non riuscì a parlare: non aveva pronunciato una sola parola da quando avevano lasciato il Farthen Dûr e la stanchezza gli offuscava la mente. Poi si portò le prime due dita della mano destra alle labbra e, sempre nell'antica lingua, disse: «Che la fortuna ti assista, Oromis-elda.» Infine portò la mano girata al petto nel gesto di cortesia e rispetto che usavano gli elfi.
«Che le stelle ti proteggano, Eragon» replicò Oromis.
Eragon ripeté la cerimonia con Glaedr. Come al solito, il tocco della coscienza sanguigna del drago intimidì Eragon, facendolo subito sentire in soggezione.
Saphira non salutò né Oromis né Glaedr. Rimase dov'era, con il collo così afflosciato che il muso toccava terra, e le spalle e i fianchi che tremavano come se avesse freddo. Gli angoli della bocca aperta erano incrostati di schiuma secca e gialla. La lingua ruvida le ciondolava fra le zanne.
Per spiegare il loro stato, Eragon disse: «Ci siamo imbattuti in un vento contrario il giorno dopo aver lasciato il Farthen Dûr e...» S'interruppe quando Glaedr sollevò la testa gigantesca e l'allungò dall'altro lato della radura, fino a portarla al di sopra di Saphira, che però continuò a non reagire. Allora Glaedr le soffiò addosso; spirali di fiamma ardevano all'interno delle sue narici. Eragon fu pervaso da un immenso sollievo nel sentire l'energia fluire in Saphira, ridando vigore alle sue membra.
Le fiamme nelle narici di Glaedr si spensero in uno sbuffo di fumo. Sono andato a caccia stamane, disse, e la sua voce mentale risuonò in tutto il corpo di Eragon. Troverai gli avanzi delle mie prede vicino all'albero con il ramo bianco in fondo alla radura. Mangia quanto ti pare.
Saphira emanò la sua silenziosa gratitudine. Trascinando sull'erba la coda inerte, arrancò fino all'albero che Glaedr le aveva indicato, poi si accovacciò e cominciò a sbranare la carcassa di un cervo.
«Accomodati» disse Oromis, indicando il tavolo e le sedie. Sul tavolo c'era un vassoio con qualche scodella di frutta e noci, mezza forma di formaggio, un filone di pane, un fiasco di vino e due calici di cristallo. Mentre Eragon si sedeva, Oromis indicò il fiasco e gli chiese: «Ti va un goccio per sciacquarti la gola dalla polvere?»
«Sì, grazie» rispose Eragon.
Con un movimento elegante, Oromis stappò il fiasco e riempì i due calici. Ne porse uno a Eragon e poi si abbandonò contro lo schienale, lisciandosi la bianca tunica con le lunghe dita.
Eragon sorseggiò il vino. Era dolce e sapeva di ciliegie e di prugne. «Maestro, io...»
Oromis lo interruppe. «A meno che non sia qualcosa di terribilmente urgente, preferirei aspettare che Saphira ci raggiunga prima di discutere di ciò che vi ha portati qui. Sei d'accordo?»
Dopo un attimo di esitazione, Eragon annuì e si concentrò sul cibo, assaporando il gusto della frutta fresca. Oromis si limitò a stargli seduto accanto in silenzio, bevendo il vino, lo sguardo perso oltre la rupe di Tel'naeír. Alle sue spalle, Glaedr osservava la scena come una statua d'oro vivente.
Passò quasi un'ora prima che Saphira finisse di mangiare. La dragonessa si trascinò al ruscello e bevve per altri dieci minuti. Con le fauci ancora gocciolanti, tornò dal ruscello e, dopo un grande sospiro, si accovacciò accanto a Eragon, le palpebre pesanti. Sbadigliò, con uno scintillio di zanne, poi scambiò i saluti con Oromis e Glaedr. Parlate quanto volete, disse. Ma non aspettatevi che io dica molto. Potrei addormentarmi da un momento all'altro.
Se lo fai, aspetteremo che ti svegli prima di continuare, disse Glaedr.
Questo è molto... gentile, rispose Saphira, e le sue palpebre si abbassarono ancora di più.
«Altro vino?» chiese Oromis, sollevando il fiasco. Quando Eragon scosse la testa, lo rimise sul tavolo, poi congiunse le dita, le unghie arrotondate simili a lucidi opali, e disse: «Non hai bisogno di dirmi che cosa ti è successo in queste settimane, Eragon. Da quando Islanzadi ha lasciato la foresta, Arya la tiene informata di tutto, e ogni tre giorni Islanzadi manda un messaggero del nostro esercito nella Du Weldenvarden. Perciò so del tuo duello con Murtagh e Castigo sulle Pianure Ardenti. So della tua impresa nell'Helgrind e di come hai punito il macellaio del tuo villaggio. E so che hai preso parte al raduno dei clan dei nani nel Farthen Dûr e del suo esito. Quindi, qualunque cosa desideri dirmi, dilla pure senza preoccuparti di dovermi delle spiegazioni.»
Eragon fece rotolare un mirtillo maturo sul palmo della mano. «Sai anche di Elva e di ciò che è successo quando ho cercato di liberarla dalla mia maledizione?»
«Sì, anche quello. Può anche darsi che tu non sia riuscito a rimuovere del tutto l'incantesimo, ma hai pagato il tuo debito nei suoi confronti, e questo è ciò che un Cavaliere dei Draghi dovrebbe fare: portare a compimento i propri obblighi, semplici o difficili che siano.»
«Sente ancora il dolore di chi le sta intorno.»
«Sì, ma adesso è per sua scelta» osservò Oromis. «Non è più la tua magia che glielo impone. Ma tu non sei venuto qui per ascoltare il mio parere su Elva. Cosa ti pesa sul cuore, Eragon? Chiedi ciò che vuoi e ti prometto che risponderò a tutte le tue domande come meglio potrò.»
«E se non sapessi quali sono le domande giuste?» chiese Eragon.
Un breve luccichio brillò nei grigi occhi di Oromis. «Ah, cominci a pensare come un elfo. Devi fidarti di noi come tuoi maestri, che insegnano a te e a Saphira le cose che non sapete. E devi fidarti di noi quando decidiamo qual è il momento più indicato per affrontare certi argomenti, perché ci sono diversi elementi del tuo addestramento di cui non si dovrebbe parlare nel momento sbagliato.»
Eragon posò il mirtillo al centro preciso del vassoio, poi con voce bassa ma risoluta disse: «A quanto pare, ci sono molti elementi di cui non avete parlato.»
Per un momento, gli unici rumori furono lo stormire delle fronde, il gorgoglio del ruscello e lo squittio distante di qualche scoiattolo.
Se hai qualche rancore, disse Glaedr, allora parla e non accanirti sulla tua rabbia come se fosse un vecchio osso senza più nulla da rosicchiare.
Saphira si agitò, e a Eragon parve di sentirla ringhiare. Le scoccò un'occhiata, poi, sforzandosi di controllare il tumulto di emozioni, chiese: «L'ultima volta che sono stato qui, sapevate chi era mio padre?»
Oromis annuì. «Sì.»
«E sapevate che Murtagh era mio fratello?»
Oromis annuì ancora una volta. «Lo sapevamo, ma...»
«E allora perché non me lo avete detto?» esclamò Eragon, balzando in piedi e rovesciando la sedia. Batté un pugno sulla coscia e si allontanò di qualche passo, lo sguardo perso fra le ombre della foresta intricata. Quando si volse, la sua rabbia crebbe nel vedere che Oromis non sembrava affatto turbato. «Me lo avreste mai detto? Mi tenevate nascosta la verità sulla mia famiglia per timore che mi distraesse dall'addestramento? O avevate paura che sarei diventato come mio padre?» D'un tratto, lo folgorò un pensiero ancora peggiore. «O pensavate che non valesse nemmeno la pena di dirmelo? E Brom, lo sapeva? Aveva scelto di nascondersi a Carvahall per me? Perché ero figlio del suo nemico? Non potete aspettarvi che io creda che sia una coincidenza, il fatto che lui e io vivevamo a poche miglia l'uno dall'altro, e che Arya mi abbia mandato per puro caso l'uovo di Saphira sulla Grande Dorsale.»
«Quello di Arya è stato un caso» disse Oromis. «All'epoca non sapeva della tua esistenza.» Eragon strinse il pomolo della sua spada da nano, ogni muscolo del corpo teso come la corda di un arco. «Quando Brom vide Saphira per la prima volta, ricordo che disse qualcosa fra sé e sé in merito al fatto di non essere sicuro se sarebbe finita in farsa o tragedia. All'epoca pensai che alludesse al fatto che un contadino qualunque come me era diventato il primo nuovo Cavaliere da più di cent'anni. Ma non si riferiva a questo, vero? Si stava chiedendo se fosse una farsa o una tragedia che il figlio minore di Morzan fosse destinato a diventare l'erede del mantello dei Cavalieri!
«Per questo tu e Brom mi avete addestrato, per essere un'arma contro Galbatorix in modo che potessi pagare per la malvagità di mio padre? È questo che sono per voi? Un pareggio di conti?» Prima che Oromis potesse rispondere, Eragon imprecò e disse: «Tutta la mia vita è stata una bugia! Dal momento in cui sono nato, nessuno, tranne Saphira, mi ha voluto con sé: non mi ha voluto con sé mia madre, Garrow, la zia Marian, e nemmeno Brom. Brom era interessato a me solo per Morzan e Saphira. Sono sempre stato solo e soltanto una seccatura. Ma qualunque cosa voi pensiate di me, io non sono mio padre, né mio fratello, e non seguirò i loro passi.» Poggiando le mani sul bordo del tavolo, Eragon si protese in avanti. «Non ho intenzione di tradire gli elfi o i nani o i Varden per Galbatorix, se è questo che vi preoccupa. Farò ciò che devo, ma d'ora in poi non avrete né la mia lealtà né la mia fiducia. Io non...»
La terra e l'aria furono scosse dal ringhio di Glaedr, che sollevò il labbro di sopra, scoprendo completamente le zanne. Hai fondati motivi per fidarti di noi più che di chiunque altro, cucciolo d'uomo, disse, e la sua voce rimbombò come un tuono nella mente di Eragon. Se non fosse stato per i nostri sforzi, saresti morto da un pezzo.
Poi, con sua grande sorpresa, Eragon sentì che Saphira si rivolgeva a Oromis e Glaedr. Diteglielo. Lo allarmò la tristezza che percepì nei suoi pensieri.
Saphira? chiese, perplesso. Dirmi cosa?
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