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E io lo stesso. La dragonessa chiuse gli occhi e spinse la testa contro le mani di Eragon, che continuava a grattarla dietro la mascella. E poi non potevo mancare all'incoronazione, giusto? Che cos'ha deciso il raduno dei... Prima che Saphira potesse concludere la domanda, Eragon le inviò un'immagine di Orik.

Ah, sospirò lei, comunicandogli la sua soddisfazione. Sarà un bravo re.

Lo spero.

Lo Zaffiro Stellato è pronto perché io lo ripari?

Se i nani non hanno già finito di metterlo insieme, sono sicuro che finiranno entro domani.

Bene. Socchiudendo una palpebra, Saphira scrutò Eragon con il suo sguardo penetrante. Nasuada mi ha raccontato dell'attentato dell'Az Sweldn rak Anhûin. Ti cacci sempre nei guai quando non sono con te.

Il sorriso di Eragon si allargò. E invece quando ci sei?

Inghiotto i guai prima che loro inghiottano te.

Questo lo dici tu. E quando gli Urgali ci tesero un'imboscata a Gil'ead e mi presero prigioniero?

Un pennacchio di fumo si levò dalle fauci di Saphira. Quello non vale. All'epoca ero più piccola e non avevo esperienza. Ora non accadrebbe. E nemmeno tu sei più debole come una volta.

Non sono mai stato debole! protestò Eragon. È solo che ho nemici potenti.

Per qualche ragione Saphira trovò la sua ultima dichiarazione molto divertente; la risata le sgorgò dal profondo del petto, scuotendola tutta, e ben presto anche Eragon si unì a lei. Nessuno dei due riuscì a fermarsi finché Eragon non si ritrovò boccheggiante a pancia all'aria, mentre Saphira cercava di trattenere le fiammate che le guizzavano dalle narici. Poi Saphira fece un verso che Eragon non aveva mai sentito prima, una specie di grugnito spezzato, e attraverso il loro legame provò una stranissima sensazione.

Saphira fece di nuovo quel verso, poi scrollò la testa, come se cercasse di sbarazzarsi di uno sciame di mosche. Accidenti, disse. Mi è venuto il singhiozzo.

Eragon rimase impalato, a bocca aperta. Un istante dopo riprese a ridere ancora più forte, piegato in due, con le lacrime che gli rigavano il volto. Ogni volta che stava per riprendersi, Saphira faceva ancora un singhiozzo, con uno scatto in avanti della testa che la faceva somigliare a una cicogna, e lui ricominciava a ridere come un matto. Alla fine Eragon si tappò le orecchie con le dita e fissò il soffitto, recitando i veri nomi di ogni metallo e ogni pietra che ricordava.

Quando ebbe finito, trasse un profondo respiro e si alzò.

Meglio? chiese Saphira, le spalle scosse da un nuovo singhiozzo.

Eragon si morse la lingua. Meglio... Avanti, andiamo a Tronjheim. Dovresti bere un po' d'acqua. A volte aiuta. E poi dovresti dormire.

Non puoi curare il singhiozzo con un incantesimo?

Forse. Può darsi. Ma né Brom né Oromis mi hanno insegnato come si fa. Saphira grugnì il suo assenso, e un secondo dopo arrivò l'ennesimo singhiozzo. Mordendosi ancora più forte la lingua, Eragon si fissò la punta degli stivali. Andiamo?

Saphira tese la zampa per invitarlo a salire. Eragon si arrampicò in fretta sulla sua schiena e prese posto sulla sella legata alla base del collo della dragonessa.

Insieme ripercorsero la galleria verso Tronjheim, felici e partecipi della rispettiva felicità.

L'INCORONAZIONE

I Tamburi di Derva suonarono, chiamando a raccolta i nani di Tronjheim per assistere all'incoronazione del nuovo re. "In circostanze normali" aveva detto Orik a Eragon la notte prima "quando il raduno dei clan elegge un re o una regina il knurla inizia a governare da subito, ma la cerimonia d'incoronazione si svolge solo dopo tre mesi, in modo da permettere a tutti coloro che vogliono prendervi parte di sistemare i loro affari e raggiungere il Farthen Dûr anche dalle regioni più remote del regno. Non ci succede spesso d'incoronare un re, perciò quando lo facciamo è nostra usanza renderlo un grande evento, con settimane di banchetti e musica, e sfide di ingegno e di forza, e gare di abilità nel forgiare, nell'intagliare e nelle altre forme d'arte... ma questi non sono tempi ordinari."

Eragon ascoltava i giganteschi tamburi, ritto in piedi accanto a Saphira, appena fuori della sala centrale di Tronjheim. Su entrambi i lati del viale lungo un miglio, centinaia di nani affollavano le arcate di ogni livello, spiando Eragon e Saphira con gli scuri occhi luccicanti.

La ruvida lingua di Saphira raspava contro le squame della bocca mentre si leccava le labbra, cosa che faceva da quando aveva finito di divorare cinque grosse pecore. Poi sollevò la zampa sinistra e si strofinò il muso. Le aleggiava intorno un odore di lana bruciata.

Smettila di agitarti, disse Eragon. Ci guardano tutti.

Saphira emise un debole ringhio. Non posso farne a meno. Ho della lana infilata fra i denti. Adesso ricordo perché odio mangiare le pecore. Quelle orribili creature lanuginose che mi fanno venire l'indigestione e le palle di pelo nello stomaco.

Ti aiuterò a pulirti i denti quando avremo finito qui. Ma intanto cerca di stare ferma.

Hmph.

Per caso Blödhgarm ti ha messo dei fiori di epilobio nelle bisacce? Potrebbero calmarti lo stomaco.

Non lo so.

Uhm. Eragon rifletté per un istante. Se non l'ha fatto, chiederò a Orik se i nani hanno delle scorte qui a Tronjheim. Dovremmo...

S'interruppe appena sentì la nota finale dei tamburi spegnersi nel silenzio. Si udiva solo qualche debole fruscio di vesti e un paio di frasi mormorate nella lingua dei nani.

Risuonarono gli squilli di una fanfara di dodici trombe che riempirono la città-montagna col loro richiamo trionfale, e da qualche parte si levò un coro di nani. Al suono di quella musica Eragon si sentì formicolare il cuoio capelluto e il sangue prese a scorrergli più in fretta, come se stesse per andare a caccia. Saphira frustò l'aria con la coda, ed Eragon capì che anche lei provava la stessa cosa.

Ci siamo, pensò.

Insieme, Eragon e Saphira avanzarono nella torreggiante sala centrale della città-montagna e presero posto nell'anello formato dai capiclan, dai capi delle gilde e dalle altre autorità.

Al centro della vasta sala giaceva ricostruito lo Zaffiro Stellato, incorniciato da una grossa intelaiatura di legno. Un'ora prima dell'incoronazione, Skeg aveva mandato un messaggio a Eragon e Saphira per avvertirli che lui e la sua squadra di artigiani avevano appena finito di rimettere insieme gli ultimi frammenti della gemma e che Isidar Mithrim era pronto perché Saphira lo facesse tornare integro come un tempo.

Il trono di granito nero dei nani era stato trasferito dalla sua collocazione abituale sotto Tronjheim e sistemato su una pedana rialzata accanto allo Zaffiro Stellato, rivolto verso il ramo orientale dei quattro corridoi principali che dividevano Tronjheim. L'est è il punto in cui sorge il sole, e la gemma simboleggiava l'alba di una nuova era. Migliaia di guerrieri nani con le armature di maglia brunita aspettavano sull'attenti in due vaste formazioni di fronte al trono, oppure schierati lungo i lati del corridoio orientale fino al cancello est di Tronjheim, a un miglio di distanza. Molti guerrieri impugnavano lance sormontate da vessilli dai curiosi disegni. Vedra, la moglie di Orik, era in prima fila, davanti al resto dell'assemblea: dopo che il raduno dei clan aveva bandito Grimstborith Vermûnd, Orik l'aveva mandata a chiamare, nel caso che fosse diventato re. Era arrivata a Tronjheim solo quella mattina.

Per mezz'ora le trombe suonarono e il coro invisibile continuò a cantare, mentre Orik incedeva a passi studiati dal cancello est fino al centro di Tronjheim. Aveva la barba spazzolata e arricciata, portava stivaloni lucidi della pelle migliore con speroni d'argento fissati ai talloni, pantaloni di lana grigia, una camicia di seta viola che brillava alla luce delle lanterne, e, sopra la camicia, la cotta di maglia: ogni anello era di puro oro bianco. Il ricco mantello bordato di ermellino, ricamato con l'emblema del Dûrgrimst Ingeitum, ricadeva morbido dalle sue spalle fluttuando in un lungo strascico. Volund, il martello da guerra forgiato da Korgan, il primo re dei nani, gli pendeva da un'alta cintura tempestata di rubini. Con quel sontuoso abbigliamento e la magnifica armatura, Orik sembrava risplendere di luce propria. Eragon rimase abbagliato.

Dietro Orik venivano dodici bambini nani, sei maschi e sei femmine, o almeno così dedusse Eragon dal taglio di capelli. I bambini indossavano tuniche marroni, rosse e dorate, e ognuno di loro teneva fra le mani a coppa una sfera levigata larga sei pollici, ciascuna ricavata da una gemma diversa.

Non appena Orik ebbe raggiunto il centro della città-montagna, la sala si oscurò e tante piccole ombre macchiarono ogni cosa al suo interno. Confuso, Eragon alzò lo sguardo e con sua sorpresa vide una pioggia di petali di rosa cadere dalla cima di Tronjheim. Come morbidi, densi fiocchi di neve, i petali vellutati si posavano sulle teste e sulle spalle dei presenti e sul pavimento, spandendo nell'aria la loro dolce fragranza.

Le trombe e il coro tacquero di colpo quando Orik si piegò su un ginocchio davanti al trono nero e chinò la testa. Alle sue spalle, i dodici bambini si fermarono e rimasero immobili.

Eragon posò una mano sul fianco caldo di Saphira, condividendo con lei un misto di inquietudine ed eccitazione. Non aveva idea di ciò che stava per succedere, perché Orik si era rifiutato di descrivergli la cerimonia da quel punto in poi.

Gannel, capoclan del Dûrgrimst Quan, fece un passo avanti, spezzando l'anello di persone che circondava la sala, e si avvicinò al trono, fermandosi sul lato destro. Il nano dalle grandi spalle indossava una sfarzosa tonaca rossa, dagli orli luccicanti di rune ricamate con filo metallico. In una mano stringeva un lungo bastone sormontato da un puro cristallo appuntito.

Dopo aver sollevato il bastone sopra la testa con entrambe le mani, Gannel lo batté sul pavimento di pietra con un tonfo che riecheggiò per tutta la sala. «Hwatum il skilfz gerdûmn!» esclamò. Continuò a parlare nella lingua dei nani per qualche minuto, ed Eragon ascoltò senza comprendere, dato che il suo traduttore non era con lui. Ma poi la voce di Gannel cambiò registro, ed Eragon riconobbe l'antica lingua. Gannel stava evocando un incantesimo, anche se era molto diverso da tutti quelli che Eragon conosceva. Invece di dirigerlo verso un oggetto o un elemento del mondo circostante, il sacerdote disse, nella lingua del mistero e del potere: «Gûntera, creatore del cielo e della terra e del mare sconfinato, ascolta il grido del tuo fedele servitore! Ti ringraziamo per la tua magnanimità. La nostra razza è florida. Quest'anno, come facciamo sempre, ti abbiamo offerto i migliori montoni delle nostre greggi, fiaschi d'idromele speziato e una parte dei nostri raccolti di frutta, verdura e grano. I tuoi templi sono i più ricchi sulla nostra terra e nessuno può sperare di competere con la tua gloria. O potente Gûntera, re degli dei, ascolta la mia preghiera e concedimi questa grazia. È giunta l'ora di nominare un mortale che governi i nostri affari terreni. Vuoi degnarti d'impartire la tua benedizione su Orik, figlio di Thrifk, e d'incoronarlo secondo la tradizione dei suoi predecessori?»

Lì per lì Eragon pensò che la preghiera di Gannel sarebbe caduta nel nulla, perché quando il nano ebbe finito di parlare non avvertì alcun flusso di magia provenire dal sacerdote. Poi Saphira gli diede un colpetto col muso e disse: Guarda!

Eragon seguì il suo sguardo e, a trenta piedi da terra, notò un'interferenza nella pioggia di petali, una zona vuota, come se un oggetto invisibile occupasse lo spazio. L'interferenza si allargò, arrivando fino al pavimento, e il vuoto circondato di petali assunse la forma di una creatura dotata di braccia e gambe, come un nano o un uomo o un elfo o un Urgali, ma con proporzioni diverse da quelle di ogni altra razza mai vista; la testa era larga quasi quanto le spalle, le braccia massicce arrivavano fin sotto le ginocchia, e se il torace era ampio, le gambe erano corte e storte.

Sottilissimi raggi di luce tremolante si sprigionarono dalla forma, e un attimo dopo apparve l'immagine nebulosa di una gigantesca figura maschile dai capelli arruffati. Il dio, se di un dio si trattava, non indossava nulla a parte un perizoma. La sua faccia scura, dai lineamenti marcati, sembrava esprimere crudeltà e gentilezza in egual misura, come se potesse passare da un estremo all'altro senza alcun preavviso.

Mentre notava quei dettagli, Eragon divenne anche consapevole della presenza di una strana, penetrante coscienza nella sala. Una coscienza dai pensieri arcani e dagli abissi insondabili, una coscienza che lampeggiava e tuonava e ondeggiava cambiando direzione all'improvviso come una nube temporalesca. Eragon si affrettò a sottrarre la mente da quel contatto. Gli formicolò la pelle e fu percorso da un brivido freddo. Non sapeva che cosa aveva sentito, ma ebbe paura e guardò Saphira in cerca di conforto. Lei stava fissando la figura, gli occhi blu da gatta che scintillavano con insolita intensità.

Come un sol uomo, i nani caddero in ginocchio.

Il dio parlò e la sua voce parve una frana di massi, il ruggito del vento sopra i picchi brulli delle montagne, il fragore delle onde contro una scogliera. Parlò nella lingua dei nani, e sebbene Eragon non capisse che cosa stava dicendo, si sentì soggiogato dalla potenza emanata dal discorso. Per tre volte il dio interrogò Orik e per tre volte Orik rispose, con voce fievole a confronto di quella del dio. Soddisfatta delle risposte, l'apparizione tese le braccia risplendenti e posò gli indici sulle tempie di Orik.

L'aria fra le dita del dio tremolò e sulla fronte di Orik si materializzò l'elmo d'oro tempestato di gemme che un tempo portava Rothgar. Il dio batté una mano sulla pancia, emise una risata tonante e poi si dissolse. I petali di rosa ricominciarono a cadere.

«Ûn qroth Gûntera!» proclamò Gannel. Risuonarono gli squilli potenti delle trombe.

Dopo essersi alzato, Orik salì sulla pedana, si voltò verso la folla e poi si sedette sul duro trono nero.

«Nal, Grimstnzborith Orik!» gridarono i nani, battendo sugli scudi con le asce e con le lance, e pestando i piedi sul pavimento. «Nal, Grimstnzborith Orik! Nal, Grimstnzborith Orik!»

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