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Poi il suono di un corno e un rullo di tamburo squarciarono l'aria. Jörmundur lesse ad alta voce le accuse e le guardie tagliarono la camicia di tela di Roran.

Roran rabbrividì quando l'aria fredda gli sferzò il torso nudo.

Un istante prima che lo colpisse, sentì la frusta sibilare nell'aria.

Fu come se gli avessero posato una sbarra di metallo incandescente sulla carne. Inarcò la schiena stringendo il morso fra i denti. Gli sfuggì un gemito involontario, anche se il morso attutì il suono e nessuno lo udì.

«Uno» disse l'uomo che impugnava la frusta.

Il secondo colpo gli strappò un altro lamento, ma poi rimase in silenzio, deciso a non mostrarsi debole davanti a tutti i Varden.

Le frustate erano dolorose quanto una delle tante ferite riportate nei mesi precedenti, ma dopo una decina di colpi smise di tentare di combattere il dolore e si arrese, entrando in uno stato di sospensione. Il suo campo visivo si restrinse finché l'unica cosa che riuscì a vedere fu il legno graffiato che aveva davanti a sé; talvolta la vista gli si annebbiava e tutto diventava nero, mentre scivolava in brevi sprazzi d'incoscienza.

Dopo un tempo che gli parve infinito, sentì una voce fievole e distante dire: «Trenta!» e fu preso dalla disperazione, chiedendosi: Come farò a sopportare altre venti frustate? Poi pensò a Katrina e al loro figlio non ancora nato e quel pensiero gli diede forza.

Roran si svegliò sulla branda nella tenda che condivideva con la moglie, disteso sul ventre. Katrina era inginocchiata accanto a lui e gli accarezzava i capelli, mormorandogli nell'orecchio, mentre qualcuno gli tamponava i solchi sulla schiena con una sostanza fredda e appiccicosa. Trasalì e s'irrigidì quando la persona toccò un punto particolarmente sensibile.

«Io non curerei così un mio paziente» sentì dire Trianna in tono sprezzante.

«Se hai curato tutti i tuoi pazienti come stavi curando Roran» replicò un'altra donna «mi meraviglio che siano sopravvissuti.» Dopo un istante, Roran riconobbe la voce: apparteneva ad Angela, la stravagante erborista dagli occhi scintillanti.

«Insomma!» esclamò Trianna. «Non ho intenzione di starmene qui in piedi a farmi insultare da una mediocre indovina che fatica perfino a evocare il più elementare degli incantesimi.»

«Allora siediti, se ti fa piacere, ma in un caso o nell'altro continuerò a insultarti finché non ammetterai che il muscolo della sua schiena si attacca qui, e non lì.» Roran sentì un dito che gli toccava due punti differenti a mezzo pollice di distanza.

«Oh!» sbuffò Trianna, e uscì dalla tenda.

Katrina sorrise a Roran, e in quel momento lui si accorse delle lacrime che le rigavano il volto. «Roran, mi senti?» chiese lei. «Sei sveglio?»

«Io... credo di sì» rispose lui con voce roca. Aveva stretto il morso così a lungo e tanto forte che gli faceva male la mascella. Tossì, poi fece una smorfia quando tutti e cinquanta gli sfregi pulsarono all'unisono.

«Ecco fatto» disse Angela. «Tutto finito.»

«È sorprendente. Non mi aspettavo che tu e Trianna avreste fatto tanto» disse Katrina.

«Ordine di Nasuada.»

«Nasuada? E perché avrebbe...»

«Dovresti chiederlo a lei. Di' a Roran di non mettersi sulla schiena. E di stare attento quando si gira sul fianco, altrimenti si potrebbero rompere le croste.»

«Grazie» mormorò Roran.

Dietro di lui, Angela rise. «Non ci pensare, Roran, o meglio, pensaci, ma non dargli troppo peso. E poi mi diverte l'idea di aver curato entrambe le vostre schiene, la tua e quella di Eragon. Bene, allora, io me ne vado. Occhio alle spie!»

Quando l'erborista se ne fu andata, Roran chiuse di nuovo gli occhi. Le morbide dita di Katrina gli accarezzarono la fronte. «Sei stato molto coraggioso» disse.

«Davvero?»

«Sì. Jörmundur e tutti quelli con cui ho parlato mi hanno detto che non hai mai urlato né implorato che smettessero di frustarti.»

«Bene.» Roran avrebbe voluto conoscere la gravità delle sue ferite, ma non voleva costringerla a descrivergli le condizioni pietose della sua schiena.

Tuttavia Katrina parve percepire il suo desiderio, perché disse: «Angela ritiene che con un po' di fortuna le tue ferite cicatrizzeranno abbastanza bene. In ogni caso, una volta che sarai completamente guarito, Eragon o un altro mago potrà rimuoverti le cicatrici dalla schiena: non si vedrà neppure che sei stato frustato.»

«Mmh.»

«Vuoi qualcosa da bere?» chiese lei. «Ho messo a bollire un infuso di achillea millefoglie.»

«Sì, grazie.»

Quando Katrina si alzò, Roran sentì un'altra persona entrare nella tenda. Aprì un occhio e rimase sorpreso nel vedere Nasuada accanto al palo d'ingresso.

«Mia signora» disse Katrina, la voce tagliente come un rasoio.

Malgrado le fitte lancinanti alla schiena, Roran si sollevò sui gomiti e, con l'aiuto di Katrina, si voltò per mettersi a sedere. Appoggiandosi a lei, fece per alzarsi, ma Nasuada lo fermò con un gesto della mano. «No, resta seduto. Non voglio farti soffrire più di quanto non abbia già fatto.»

«Perché sei qui, Lady Nasuada?» chiese Katrina. «Roran ha bisogno di riposare e di riprendersi, non di passare il tempo a parlare quando non deve.»

Roran mise la mano sulla spalla sinistra di Katrina. «Posso parlare, se devo» mormorò.

Spostandosi verso il centro della tenda, Nasuada sollevò l'orlo del vestito verde e sedette sul piccolo baule che Katrina si era portata da Carvahall. Dopo essersi sistemata le pieghe della gonna, disse: «Ho un'altra missione per te, Roran, una breve incursione simile a quella a cui hai già partecipato.»

«Quando devo partire?» chiese lui, sorpreso che Nasuada si fosse presa il disturbo d'informarlo di persona di un incarico così semplice.

«Domani.»

Katrina sgranò gli occhi. «Sei impazzita?» esclamò.

«Katrina...» mormorò Roran, cercando di rabbonirla, ma lei si liberò della sua mano con una scrollata di spalle e continuò: «Per poco non moriva nell'ultima missione, e lo hai appena fatto frustare a sangue! Non puoi ordinargli di tornare a combattere così presto, non resisterebbe nemmeno un minuto contro i soldati di Galbatorix!»

«Posso, e devo!» esclamò Nasuada con un piglio così autoritario che Katrina tenne a freno la lingua, in attesa di ascoltare il seguito, anche se Roran intuì che la sua collera non era affatto sbollita. Fissandolo dritto negli occhi, Nasuada disse: «Roran, non so se lo sai, ma la nostra alleanza con gli Urgali è sul punto di spezzarsi. Uno dei nostri ha assassinato tre Urgali mentre eri in missione agli ordini del capitano Edric, il quale, forse ti farà piacere saperlo, non è più capitano. A ogni modo, ho fatto impiccare il miserabile disgraziato che ha ucciso gli Urgali, ma da allora i nostri rapporti con gli arieti di Garzhvog si sono pericolosamente incrinati.»

«E questo cosa c'entra con Roran?» intervenne Katrina.

Nasuada serrò le labbra, poi disse: «Ho bisogno di convincere i Varden ad accettare la presenza degli Urgali senza altri spargimenti di sangue, e il modo migliore per farlo è di mostrare ai Varden che le due razze possono lavorare insieme perseguendo pacificamente uno scopo comune. Per questo il gruppo con cui viaggerai sarà composto da un pari numero di umani e di Urgali.»

«Ma questo ancora non...» iniziò a dire Katrina.

«E li metterò tutti sotto il tuo comando, Fortemartello.»

«Il mio comando?» gracchiò Roran, stupefatto. «Perché?»

Con un sorriso ironico Nasuada disse: «Perché tu farai qualunque cosa pur di proteggere i tuoi amici e la tua famiglia. In questo sei come me, anche se la mia famiglia è molto più numerosa della tua, visto che considero tutti i Varden miei parenti. Inoltre, dato che sei il cugino di Eragon, non posso permettermi di rischiare un altro tuo atto d'insubordinazione, perché a quel punto non avrei altra scelta se non giustiziarti o espellerti dai Varden. E non voglio fare nessuna delle due cose.

«Per questo ti affido il comando, in modo che non ci sia nessuno sopra di te, a parte me, a cui potresti disobbedire. Se ignorerai i miei ordini, assicurati che sia soltanto per uccidere Galbatorix, perché nessun altro motivo ti salverà da conseguenze ben peggiori delle frustate che ti sei meritato oggi. E ti affido questo comando perché ti sei dimostrato capace di convincere la gente a seguirti anche nelle circostanze più ardue. Tu meglio di chiunque altro saprai mantenere il controllo di un gruppo di umani e di Urgali. Manderei Eragon, se potessi, ma dato che lui non c'è, la mia scelta ricade su di te. Quando i Varden sentiranno che il cugino di Eragon, Roran Fortemartello... colui che da solo ha ucciso quasi duecento soldati... è andato in missione con gli Urgali e che la missione è stata un successo, allora potremo continuare ad avere gli Urgali come alleati per l'intera durata di questa guerra. Ecco il motivo per cui ti ho fatto curare da Angela e Trianna più di quanto era giusto: non per risparmiarti la punizione, ma perché ho bisogno che tu sia abile al comando. Dunque, cosa rispondi, Fortemartello? Posso contare su di te?»

Roran guardò Katrina. Sapeva che lei desiderava con tutte le sue forze che dicesse a Nasuada di non essere in grado di guidare l'incursione. Abbassando gli occhi per non guardare il suo dolore, pensò all'immenso esercito contro cui combattevano i Varden. Poi, con un rauco sussurro, disse:

«Puoi contare su di me, Lady Nasuada.»

♦ ♦ ♦

FRA LE NUVOLE

Da Tronjheim, Saphira volò per cinque miglia fino alla parete interna del Farthen Dûr, poi lei ed Eragon entrarono nella galleria che attraversava la base della montagna cava per numerose miglia verso est. Eragon avrebbe potuto attraversare la galleria di corsa in una decina di minuti, ma poiché il soffitto impediva a Saphira di volare o di saltare, la dragonessa non sarebbe stata in grado di stargli dietro, perciò Eragon si limitò a tenere un passo veloce.

Un'ora dopo sbucarono nella Valle Odred, che correva da nord a sud. Annidato fra le colline all'imboccatura della stretta vallata ricoperta di felci si trovava il Fernoth-mérna, un lago perfettamente rotondo, come una goccia d'inchiostro nero fra le vette torreggianti dei Monti Beor. Dal punto più settentrionale del Fernoth-mérna scorreva il Ragni Darmn, che serpeggiava nella valle fino a confluire nell'Az Ragni, alle pendici di Moldûn il Fiero, il monte più a nord della catena dei Beor.

Erano partiti da Tronjheim molto prima dell'alba, e nonostante la galleria li avesse rallentati era ancora mattino presto. Lo squarcio di cielo sopra le loro teste, là dove il sole filtrava fra le vette dei monti giganteschi, era solcato da pallidi raggi dorati. Nella valle, densi brandelli di nuvole si aggrappavano alle pendici dei monti come grossi serpenti grigi. Bianche volute di nebbia si levavano dalla superficie vitrea del lago.

Eragon e Saphira si fermarono sulle rive del Fernoth-mérna per bere e riempire le borracce per il viaggio. L'acqua proveniva dalla neve e dal ghiaccio che si scioglievano dalle montagne. Era così fredda che a Eragon fecero male i denti. Strizzò gli occhi e batté i piedi per terra gemendo mentre una fitta provocata dal freddo gli trapassava il cranio.

Quando la sensazione pulsante scemò, guardò oltre il lago. Fra le cortine fluttuanti di nebbia, scorse le rovine di un castello dalla forma irregolare, costruito su uno sperone di nuda roccia. Fitti tralci d'edera strangolavano i muri cadenti, ma a parte questo, la struttura pareva senza vita. Eragon rabbrividì. L'edificio abbandonato emanava un'aura cupa e sinistra, come la carcassa putrescente di qualche orrenda bestia.

Pronto?

gli chiese Saphira.

Pronto,

rispose lui, e montò in sella.

Dal Fernoth-mérna, Saphira volò verso nord, seguendo la valle Odred per uscire dai Monti Beor. La valle non portava direttamente a Ellesméra, situata molto più a ovest, ma non c'era altra scelta che percorrerla, dato che i valichi fra le montagne si trovavano a oltre cinque miglia di altezza.

Saphira volava alla massima quota che Eragon era in grado di sopportare; le era più semplice coprire lunghe distanze nell'atmosfera rarefatta piuttosto che nell'aria densa e umida più vicina al suolo. Per proteggersi dalle temperature glaciali, Eragon aveva indossato diversi strati d'indumenti e si schermava dal vento con un incantesimo che divideva in due la corrente d'aria gelata in modo che gli passasse accanto senza investirlo.

Cavalcare Saphira era tutt'altro che riposante, ma dato che la dragonessa volava a un ritmo costante e fluido, Eragon non doveva concentrarsi per mantenere l'equilibrio come quando lei virava o si tuffava in picchiata o eseguiva una delle sue tante manovre acrobatiche. Il giovane passò il tempo parlando con lei, ripensando a ciò che era accaduto nelle settimane precedenti, e studiando il paesaggio mutevole che scorreva sotto di loro.

Hai usato la magia senza l'antica lingua quando i nani ti hanno attaccato, disse Saphira. È stato un gesto pericoloso.

Lo so, ma non ho avuto il tempo di pensare alle parole. E poi tu non usi mai l'antica lingua quando evochi un incantesimo.

È diverso. Io sono un drago. A noi non serve l'antica lingua per esprimere le nostre intenzioni; noi sappiamo ciò che vogliamo, e non cambiamo idea facilmente come gli elfi o gli umani.

Il sole arancione era a una spanna sopra l'orizzonte quando Saphira oltrepassò l'imboccatura della valle e sbucò sulle desolate praterie che lambivano i Monti Beor. Raddrizzandosi sulla sella, Eragon si guardò attorno e scosse il capo, meravigliato da quanta strada avevano fatto. Se la prima volta avessimo potuto volare a Ellesméra, avremmo trascorso molto più tempo con Oromis e Glaedr. Saphira annuì con la mente.

La dragonessa continuò a volare finché il sole non tramontò, il cielo si riempì di stelle e le montagne divennero una scura macchia viola alle loro spalle. Avrebbe continuato fino al mattino dopo ma Eragon insistette perché si fermassero a riposare. Sei ancora stanca per il viaggio fino al Farthen Dûr. Domani potremo volare anche di notte, e anche tutto il giorno dopo, se necessario, ma stanotte devi dormire.

Anche se a Saphira la sua proposta non piacque, acconsentì e atterrò vicino a un boschetto di salici sulla sponda di un torrente. Quando smontò, Eragon scoprì di avere le gambe così rigide che stava in piedi a stento. Tolse la sella a Saphira, poi srotolò il sacco da notte sul terreno accanto a lei e si raggomitolò con la schiena contro il suo corpo caldo. Non gli serviva una tenda: Saphira lo riparava con un'ala come una mamma falco che protegge la sua covata. Ben presto i due scivolarono nei rispettivi sogni, che si mescolarono in strani modi meravigliosi, poiché le loro menti restavano unite anche nel sonno.

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