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«Molto bene, Nar Garzhvog» disse, stringendosi la cinghia dello zaino in vita. «Che si sappia, non è mai successo nella storia che uno come me e uno come te corressero insieme.»
Garzhvog ridacchiò tra sé. «Forza, andiamo, Spadarossa.»
Insieme si rivolsero a est e insieme partirono alla volta dei Monti Beor. La corsa di Eragon era lieve e veloce, mentre l'Urgali lo seguiva a grandi falcate. Un suo passo corrispondeva a due passi di Eragon, e la terra tremava sotto il suo peso imponente. In cielo, nubi gonfie di pioggia si ammassavano all'orizzonte, facendo presagire una tempesta torrenziale, e i falchi che volavano in circolo a caccia di prede lanciavano il loro verso malinconico.
OLTRE LE COLLINE E I MONTI
Eragon e Nar Garzhvog corsero per due giorni di fila, notte compresa, fermandosi solo per dissetarsi e liberare il corpo dei suoi rifiuti.
Alla fine Garzhvog disse: «Spadarossa, ho bisogno di mangiare e di dormire.»
Eragon si appoggiò a un ceppo lì vicino, ansimando, e annuì. Non voleva cedere per primo, ma era affamato e stanco quanto il Kull. Poco dopo aver lasciato l'accampamento dei Varden, aveva scoperto di riuscire a batterlo in velocità per le prime cinque miglia; poi, quanto a resistenza, l'Urgali non era da meno, e addirittura lo superava.
«Vengo a caccia con te» gli propose.
«Non serve. Tu accendi un grande fuoco; al cibo penso io.»
«D'accordo.»
Dopo che Garzhvog si fu incamminato verso un boschetto di betulle a nord, Eragon slegò la cinghia dello zaino e con un sospiro di sollievo lo posò a terra vicino al ceppo. «Accidenti a questa armatura» bofonchiò. Nemmeno entro i confini dell'Impero aveva corso tanto con quel peso sulle spalle. Non aveva immaginato che sarebbe stata un'impresa così ardua. Gli facevano male i piedi e la schiena e, quando tentò di accucciarsi, le ginocchia si rifiutarono di piegarsi.
Cercando di non badare alla scomodità che gli dava il non potersi chinare, prese a raccogliere erba e rami secchi, che poi ammucchiò su un fazzoletto di terra asciutto e roccioso.
Lui e Garzhvog si trovavano a est della punta meridionale del Lago Tüdosten. Il suolo era umido e la vegetazione rigogliosa, con prati d'erba alta sei piedi, in cui vagavano branchi di cervi, gazzelle e buoi selvatici dal manto nero, con grandi corna rivolte all'indietro. Eragon sapeva che la zona era così ricca per la presenza dei Monti Beor, che contribuivano alla formazione di enormi banchi di nubi che si spostavano per molte leghe sulle pianure al di là della catena montuosa, portando la pioggia in luoghi altrimenti aridi come il deserto di Hadarac.
Benché i due avessero già corso per un impressionante numero di leghe, Eragon era deluso. Tra il fiume Jiet e il Lago Tüdosten avevano perso molte ore a nascondersi e deviare in modo da non essere visti. Ora che si erano lasciati il lago alle spalle, sperava che avrebbero aumentato l'andatura. Nasuada non aveva previsto questo ritardo, vero? Oh, no. Pensava che sarei riuscito a correre a rotta di collo dall'accampamento al Farthen Dûr. Ah! Diede un calcio a un ramo davanti a sé, poi continuò a raccogliere legna, borbottando.
Un'ora dopo, quando Garzhvog tornò, Eragon era seduto di fronte al fuoco lungo una iarda e ampio due piedi che aveva acceso e fissava le fiamme, cercando di resistere in tutti i modi alla tentazione di scivolare nel mondo dei sogni a occhi aperti e riposare. Non appena alzò la testa, gli scricchiolò il collo.
Garzhvog avanzava verso di lui con la carcassa di una bella cerva bene in carne sotto il braccio sinistro. Come se non pesasse più di un sacco di stracci, sollevò l'animale e ne conficcò la testa sulla forcella di un albero a una ventina di iarde dal fuoco. Poi prese un coltello e cominciò a ripulire la carcassa.
Eragon si alzò - le sue giunture parevano di pietra - e si avvicinò all'ariete barcollando.
«Come hai fatto a ucciderla?» gli chiese.
«Con la fionda» ringhiò l'altro.
«Vuoi cuocerla allo spiedo? O gli Urgali mangiano la carne cruda?»
Garzhvog volse il capo e scrutò Eragon da dietro il corno sinistro a spirale, un occhio giallo incavato che brillava di chissà quale enigmatica emozione. «Non siamo bestie, Spadarossa.»
«Non ho detto questo.»
L'Urgali grugnì e tornò al suo lavoro.
«Ci vorrà una vita per cucinarlo allo spiedo» commentò Eragon.
«Pensavo di farlo stufato, e quello che avanza si potrà friggere su una pietra.»
«Stufato? E come? Non abbiamo una pentola.»
Garzhvog si chinò e si pulì la mano destra per terra, poi dalla sacca che aveva in vita estrasse uno strano oggetto di forma quadrata, ripiegato più volte, e lo lanciò a Eragon.
Lui cercò di prenderlo, ma era così stanco che lo mancò. Sembrava un vello enorme. Non appena lo raccolse da terra, il quadrato si aprì: aveva la forma di un sacco, largo un piede e mezzo e profondo tre. Il bordo era rinforzato con una spessa striscia di cuoio su cui erano cuciti anelli di metallo. Eragon rovesciò il contenitore, sbalordito da tanta morbidezza e dal fatto che non ci fossero cuciture.
«Che cos'è?»
«Lo stomaco dell'orso che ho ucciso l'anno in cui mi sono spuntate le corna. Appendilo a qualcosa o mettilo in un buco per terra, poi riempilo d'acqua e buttaci dentro delle pietre bollenti. Le pietre scalderanno l'acqua. Sentirai che delizia.»
«Ma la pelle non brucia?»
«Non è mai successo.»
«È magico?»
«Niente magia. Solo pellaccia dura.» Mentre afferrava la cerva per i fianchi e, con un solo movimento, le spezzava l'osso pelvico in due, Garzhvog sbuffò. Per sfondare lo sterno usò il coltello.
«Dev'essere stato un orso enorme» disse Eragon.
Garzhvog emise uno strano suono di gola, una sorta di ruk ruk. «Era più grosso di me adesso, Ammazzaspettri.»
«Hai ucciso anche quello con la fionda?»
«L'ho strangolato a mani nude. Nel rito di iniziazione all'età adulta devi dimostrare il tuo coraggio, e non sono ammesse armi.» Garzhvog tacque un momento, il coltello infilzato nella carcassa fino all'elsa. «A nessuno di noi verrebbe mai in mente di cercare di uccidere un orso. Perlopiù andiamo a caccia di lupi o di capre di montagna. Ecco perché io sono diventato il capo.»
Eragon lasciò a lui il compito di preparare la carne e tornò al fuoco. Accanto a esso scavò un buco e vi depositò lo stomaco dell'orso, infilando dei pezzi di legno nei cerchi di metallo per bloccarlo. Poi raccolse una dozzina di sassi grandi quanto mele e li gettò nel fuoco. In attesa che si scaldassero, usò la magia per riempire d'acqua i due terzi della pelle, poi ricavò un paio di pinze da un giovane salice e un pezzo di pelle nodosa.
Quando i sassi furono rosso ciliegia, gridò: «Sono pronti!»
«Buttali nell'acqua» rispose Garzhvog.
Servendosi delle pinze, Eragon recuperò quelli più vicini e obbedì. Al contatto con il calore, la superficie dell'acqua esplose in volute di vapore. Altri due, e l'acqua giunse a ebollizione.
Garzhvog vi gettò dentro due manciate di carne, poi insaporì lo stufato con un paio di abbondanti pizzichi di sale presi dalla sacca che aveva in vita e diversi rametti di rosmarino, timo e altre erbe selvatiche che aveva trovato durante la caccia. Poi piazzò una lastra piatta di scisto accanto al fuoco. Quando fu calda al punto giusto, vi appoggiò sopra le strisce di carne.
Mentre il cibo cuoceva, i due ricavarono dei cucchiai dal ceppo su cui Eragon aveva posato lo zaino.
La fame protrasse a dismisura il tempo di attesa, almeno per Eragon, ma in verità lo stufato fu pronto in pochi minuti. Lui e Garzhvog mangiarono voraci come lupi. Eragon divorò il doppio di quanto non fosse mai riuscito a mangiare prima e il resto fu ripulito dall'ariete, che si abbuffava come sei uomini corpulenti.
Poi Eragon si sdraiò, appoggiandosi ai gomiti, e fissò le lucciole brillanti che erano comparse lungo il limitare del boschetto di betulle e si rincorrevano disegnando linee contorte. Da qualche parte una civetta chiurlò, un suono dolce e rauco. Le prime stelle punteggiarono il cielo viola.
Eragon fissò un punto nel vuoto e pensò a Saphira, poi ad Arya, poi a tutte e due; infine chiuse gli occhi. Le tempie gli pulsavano a ritmo regolare. Sentì uno scricchiolio; riaprì gli occhi e dalla parte opposta della pelle dell'orso vide che Garzhvog si puliva i denti con l'estremità appuntita di un femore. Eragon gli guardò i piedi nudi - l'Urgali si era tolto i sandali prima di mangiare - e con sua grande sorpresa notò che aveva sette dita.
«Anche i nani hanno sette dita» gli fece notare.
Garzhvog sputò un pezzo di carne nella brace. «Non lo sapevo. Sai, non ho mai avuto tutta questa voglia di guardare i piedi di un nano.»
«Non ti pare curioso che gli Urgali e i nani abbiano quattordici dita mentre gli elfi e gli umani ne hanno dieci?»
Garzhvog arricciò le labbra carnose in un ringhio. «A parte le dita dei piedi, non abbiamo niente in comune con quei ratti di montagna senza corna, Spadarossa. Si vede che quando crearono il mondo, agli dei piacque così. Non ci sono altre spiegazioni.»
Per tutta risposta, Eragon grugnì e tornò a guardare le lucciole. Poi disse: «Raccontami una storia di cui la tua razza va fiera, Nar Garzhvog.»
Il Kull rifletté un momento, poi si tolse l'osso di bocca. «Tanto tempo fa» cominciò «viveva una giovane Urgralgra di nome Maghara. Aveva le corna che brillavano come pietra lucida, i capelli che le scendevano fin oltre la vita e con la sua risata riusciva a incantare gli uccelli e a chiamarli a sé dai loro nidi negli alberi. Ma non era bella. Anzi, era proprio brutta. Nel suo villaggio viveva un ariete fortissimo. Aveva ucciso quattro avversari in incontri di lotta e ne aveva sconfitti ventitré. Tuttavia, anche se grazie alle sue imprese si era conquistato una vasta fama, non aveva ancora scelto una compagna. Maghara desiderava essere la prescelta, ma lui non l'avrebbe mai nemmeno degnata di uno sguardo perché era brutta; e poiché sapeva di essere brutta, Maghara non riusciva a vedere quanto fossero lucenti le sue corna, o splendidi i suoi lunghi capelli, o quanto fosse bello sentirla ridere. Con il cuore infranto, Maghara scalò la montagna più alta della Grande Dorsale e invocò l'aiuto di Rahna, la madre di tutti noi, colei che ha inventato il telaio e l'aratro, colei che ha innalzato i Monti Beor mentre era in fuga dal grande drago. Rahna, Colei che ha le Corna Dorate, rispose e le chiese perché l'aveva chiamata. "Fammi diventare bella, o Madre Onorata, così che possa ammaliare l'ariete che bramo" le rispose Maghara. "Non serve essere bella, Maghara. Hai corna lucenti, lunghi capelli e una deliziosa risata. Con queste qualità conquisterai un ariete che non sia così sciocco da guardare solo il viso di una femmina" le disse Rahna, però Maghara si buttò a terra e insisté: "Non sarò felice finché non avrò lui, Madre Onorata. Ti prego, fammi diventare bella." Rahna sorrise e rispose: "Se esaudisco la tua richiesta, bambina mia, come pensi di ripagarmi?" E Maghara: "Ti darò ciò che vuoi."
«Rahna fu soddisfatta, così la fece diventare bella. Quando Maghara tornò al villaggio, tutti la ammirarono. Grazie al suo nuovo viso, l'ariete che amava la scelse come compagna ed ebbero molti figli e vissero felici per sette anni. Poi Rahna andò da lei e le disse: "Hai trascorso sette anni insieme all'ariete che volevi. Sei felice?" E Maghara rispose: "Sì." Allora Rahna continuò: "Sono venuta a riscuotere la mia ricompensa." Si guardò intorno nella casa di pietra, afferrò il primogenito di Maghara e disse: "Prendo lui." Maghara implorò Colei che ha le Corna Dorate di risparmiarlo, ma lei fu irremovibile. Alla fine Maghara prese la mazza del compagno e fece per colpire la dea, ma l'arma le si frantumò fra le mani. Per punizione Rahna la privò della bellezza e se ne andò con il primogenito verso il suo palazzo, dove risiedono i quattro venti. Chiamò il bambino Hegraz, lo allevò e lo fece diventare uno dei più potenti guerrieri che mai abbiano camminato su questa terra. La morale della storia è che non bisogna mai opporsi al proprio destino, perché si finisce sempre col perdere ciò che abbiamo di più caro.»
Eragon guardò il fulgido profilo della luna crescente apparire sopra l'orizzonte a est. «Raccontami dei vostri villaggi.»
«Cosa vuoi sapere?»
«Tutto. Quella volta, quando entrai nella tua mente e in quella di Khagra e di Otvek, trovai centinaia di immagini, ma ne ricordo solo una manciata e comunque non nei dettagli. Sto cercando di dare un senso a ciò che vidi allora.»
«Potrei dirti un sacco di cose» grugnì Garzhvog. Con gli occhi grevi e pensierosi, si passò lo stuzzicadenti improvvisato attorno a una zanna e disse: «Prendiamo dei tronchi e scolpiamo su di essi i musi degli animali e le montagne, poi li conficchiamo nel terreno accanto alle nostre case per spaventare gli spiriti delle foreste. A volte sono così ben fatti che sembrano vivi. Quando entri in uno dei nostri villaggi, ti senti addosso gli occhi degli animali...» Trattenne l'osso fra le dita, poi continuò a muoverlo avanti e indietro nella bocca. «Accanto alla soglia di ogni capanna appendiamo il namna. È un lembo di stoffa grande quanto la mia mano aperta. Ce ne sono di tutti i colori e descrivono la storia della famiglia che vive in quella capanna. Solo i tessitori più anziani e abili possono aggiungere qualche particolare o ripararne uno se è danneggiato...» L'osso gli scomparve nel pugno. «Nei mesi invernali, chi ha una compagna lavora con lei al tappeto del focolare. Ci vogliono almeno cinque anni per finirlo, dunque alla fine sai se hai scelto la compagna giusta.»
«Non ho mai visto uno dei vostri villaggi» disse Eragon. «Devono essere ben nascosti.»
«E ben difesi, anche. Pochi di coloro che vedono le nostre case sopravvivono per raccontarlo.»
Concentrandosi sul Kull, Eragon gli chiese, con una punta di nervosismo nella voce: «Come hai fatto a imparare la nostra lingua? C'erano esseri umani tra voi? Li tenevate come schiavi?»
Garzhvog ricambiò lo sguardo senza battere ciglio. «Noi non abbiamo schiavi, Spadarossa. Ciò che so lo strappo dalle menti degli uomini contro cui combatto e poi lo condivido con il resto della mia tribù.»
«Hai ucciso molti umani, vero?»
«Anche tu hai ucciso molti Urgralgra, Spadarossa. Ecco perché dobbiamo essere alleati; altrimenti la mia razza non sopravviverà.»
Eragon incrociò le braccia. «Quando io e Brom eravamo sulle tracce dei Ra'zac, passammo da Yazuac, un villaggio vicino al fiume Ninor. Trovammo tutti gli abitanti ammucchiati al centro, morti. In cima alla pila di cadaveri c'era un neonato infilzato su una lancia. Fu la cosa più brutta che avessi mai visto. E a ucciderli erano stati gli Urgali.»
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