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«Quanto tempo ci vorrà?»
«Una settimana, forse due.»
Roran si infilò ciò che restava dello stivale. «Eragon mi ha circondato di
incantesimi per proteggermi da eventuali ferite. Oggi mi hanno salvato la vita diverse volte. Perché non mi hanno protetto dal corno del bue?»
«Non lo so» rispose Carn sospirando. «È impossibile essere pronti per ogni eventualità. Ecco perché la magia è così pericolosa. Se tralasci anche un solo aspetto di un incantesimo magari non succede niente di grave, al massimo ti indebolisce un po', ma nella peggiore delle ipotesi può avere conseguenze terribili che non avevi previsto. Accade anche ai migliori maghi. Forse c'era qualcosa che non andava negli incantesimi di tuo cugino, una parola sbagliata o una frase mal costruita: ecco perché il bue è riuscito a ferirti.»
Roran scese dal carro e raggiunse zoppicando la testa del convoglio per verificare l'esito della battaglia. Cinque Varden erano stati feriti, lui compreso, e altri due erano morti: uno lo conosceva appena, mentre con l'altro, Ferth, aveva parlato in diverse occasioni. Dei nemici, invece, non era sopravvissuto nessuno.
Si fermò accanto ai primi due soldati che aveva ucciso e ne esaminò i cadaveri. Sentì un sapore amaro in bocca e gli si rivoltò lo stomaco per la repulsione. Quanti ne ho uccisi... non lo so più. Capì che nella follia della battaglia delle Pianure Ardenti aveva perso il conto delle vittime lasciate sul campo. Rimase turbato dal fatto di non sapere nemmeno più quante persone aveva ucciso. Devo massacrare interi campi di esseri umani per recuperare ciò che l'Impero mi ha tolto? Poi gli sovvenne un pensiero ancora più sconcertante: E se anche ci riuscissi, come potrei tornare nella Valle Palancar e vivere in pace dopo che la mia anima è stata macchiata dal sangue di centinaia di persone?
Chiuse gli occhi e rilassò tutti i muscoli del corpo per cercare di calmarsi. Ho ucciso per amore. Ho ucciso per amore di Katrina, di Eragon e di tutti gli abitanti di Carvahall, e anche dei Varden e di questa nostra terra. Per questo amore, se necessario sono disposto ad attraversare un oceano di sangue.
«Mai visto niente di simile, Fortemartello» esclamò Ulhart. Roran si riebbe e si trovò davanti il guerriero brizzolato che teneva Fiammabianca per le redini. «Nessuno sarebbe stato così pazzo da inventarsi un trucchetto come quello... Oh! Saltare sui carri! E uno su mille sarebbe sopravvissuto per raccontarlo. Ottimo lavoro. Sta' attento, però. Non penserai di potertene andare in giro a fare il funambolo e combattere da solo contro cinque soldati e aspettarti di vedere la prossima estate, eh? Fatti furbo, e sii più cauto.»
«Lo terrò a mente» rispose Roran, prendendo il cavallo dal suo superiore.
Dopo aver sbaragliato l'ultimo soldato, i guerrieri rimasti incolumi erano andati di carro in carro, e usando i coltelli avevano aperto i fagotti e descritto il contenuto a Martland, il quale aveva preso nota di tutto così che Nasuada potesse studiare le informazioni e forse carpire qualche indizio sui piani futuri di Galbatorix. Roran osservò gli uomini esaminare gli ultimi carri, che contenevano sacchi di farina e mucchi di uniformi. Poi sgozzarono i buoi sopravvissuti, inondando la strada di sangue. A Roran dispiacque di uccidere quelle povere bestie, ma capiva quanto fosse importante privarne l'Impero e, se glielo avessero chiesto, avrebbe impugnato il coltello lui stesso. Avrebbero potuto portarli con sé fino all'accampamento dei Varden, ma erano troppo lenti e ingombranti. I cavalli dei soldati nemici invece sarebbero riusciti a tenere il passo; così ne catturarono quanti più possibile e li legarono dietro i loro.
Poi uno degli uomini prese una torcia imbevuta di resina dalle bisacce fissate alla sella e dopo aver armeggiato per qualche istante con la pietra focaia e l'acciaio la accese. Cavalcò avanti e indietro lungo il convoglio, appiccò il fuoco a ciascun carro e infine gettò la torcia nell'ultimo della fila.
«In sella!» gridò Martland.
Mentre montava su Fiammabianca, Roran sentì pulsare la gamba ferita. Spronò lo stallone e raggiunse Carn, mentre il resto degli uomini si disponeva in coppie dietro il duca.
Martland partì al trotto, seguito a ruota dal gruppo, e si lasciò alle spalle i carri in fiamme, una fila di gemme luccicanti allineate lungo la strada deserta.
♦ ♦ ♦
UNA FORESTA DI PIETRA
Dalla folla si levò un'ovazione.
Eragon era seduto sugli spalti di legno che i nani avevano costruito fuori dai bastioni della Rocca di Bregan. Il forte era arroccato su una spalla arrotondata del Monte Thardûr, a oltre un miglio di altitudine dal fondo della valle nebbiosa. Da lì si vedeva a leghe di distanza in ogni direzione, almeno fino alle creste delle montagne, che bloccavano la visuale. Come Tronjheim e le altre città dei nani che Eragon aveva visitato, la Rocca di Bregan era tutta di pietra, un granito rossastro che dava alle stanze e ai corridoi un senso di calore. La Rocca era un solido e imponente edificio di cinque piani che terminava con una torre campanaria a cielo aperto, sormontata da una goccia di vetro larga quanto due nani e sorretta da quattro coste di granito che si univano a formare una sorta di montatura appuntita. La goccia, come gli aveva spiegato Orik, era una versione ingrandita delle lanterne senza fiamma dei nani, e in caso di emergenza la sua luce dorata poteva illuminare l'intera valle. I nani la chiamavano Az Sindriznarrvel, la Gemma di Sindri. Ammassate tutto intorno sorgevano i numerosi alloggi per la servitù e per i guerrieri del Dûrgrimst Ingeitum, e altre strutture di vario genere, come stalle, forge e un tempio dedicato a Morgothal, il dio del fuoco adorato dai nani, il patrono dei fabbri. Sotto le alte mura lisce, disseminate nelle radure dentro la foresta, c'erano decine di fattorie di pietra da cui si levavano spirali di fumo.
Orik aveva mostrato e spiegato a Eragon tutto ciò e molto altro dopo che i tre bambini nani lo avevano scortato nel cortile della rocca, gridando «Argetlam!» a chiunque fosse a portata d'orecchio. Orik lo aveva accolto come un fratello, poi l'aveva portato ai bagni e gli aveva procurato una veste porpora scuro e una banda dorata da mettere sulla fronte.
Infine lo sorprese presentandogli Vedra, una nana dagli occhi luminosi, il viso tondo come una mela e i capelli lunghi, sua moglie da soli due giorni. Mentre Eragon, sbalordito, faceva loro le congratulazioni, Orik spostò il peso del corpo da un piede all'altro e disse: «Mi è spiaciuto che tu non abbia potuto partecipare alla cerimonia. Ho chiesto a uno dei nostri stregoni di cercare Nasuada e le ho domandato se poteva far avere il mio invito a te e a Saphira, ma si è rifiutata; temeva che ti distraesse dall'incarico imminente. Non mi sento di biasimarla, ma avrei voluto che nonostante questa guerra fossi venuto alle mie nozze, così come mi sarebbe piaciuto partecipare a quelle di tuo cugino, perché adesso siamo tutti parenti, se non per vincoli di sangue, almeno davanti alla legge.»
Con un forte accento, Vedra aggiunse: «Ti prego di considerarmi tua sorella, Ammazzaspettri. Per quanto in mio potere, alla Rocca di Bregan sarai sempre trattato come uno di famiglia e potrai rifugiarti da noi ogni volta che ne avrai bisogno, fosse anche Galbatorix in persona a darti la caccia.»
Eragon si inchinò, commosso dalla sua offerta. «È molto gentile da parte tua.» Poi le chiese: «Se non sono troppo indiscreto, perché tu e Orik avete scelto di sposarvi proprio adesso?»
«Avremmo dovuto celebrare le nozze questa primavera, ma...» disse Vedra.
«Ma gli Urgali hanno attaccato il Farthen Dûr» continuò Orik con i suoi soliti modi bruschi «e poi Rothgar mi ha spedito insieme a te a Ellesméra. Quando sono tornato qui e le famiglie del clan mi hanno accettato come loro grimstborith, abbiamo pensato che fosse il momento ideale per rendere ufficiale il nostro fidanzamento e diventare marito e moglie. Forse nessuno di noi sopravviverà fino al prossimo anno, dunque perché temporeggiare?»
«E così sei diventato capoclan» disse Eragon.
«Sì. Scegliere il nuovo leader del Dûrgrimst Ingeitum è stata una faccenda controversa - abbiamo discusso per più di una settimana - ma alla fine le famiglie hanno accettato che fossi io a seguire le orme di Rothgar e a prenderne il posto, in quanto suo unico erede.»
Eragon, seduto accanto a Orik e a Vedra, divorava il pane e la carne di montone che gli avevano portato i nani, osservando la gara in corso. Orik gli aveva spiegato che, secondo la tradizione, una famiglia di nani benestante deve organizzare dei giochi per intrattenere gli invitati al ricevimento di nozze. La famiglia di Rothgar era così ricca che la festa proseguiva ormai da tre giorni ed era previsto che continuasse per altri quattro. Le discipline in programma erano diverse: lotta, tiro con l'arco, scherma, gare di forza fisica e il Ghastar, che stavano ammirando proprio in quel momento.
Dalle estremità opposte di un campo erboso, due nani si lanciarono di corsa l'uno contro l'altro in groppa a una Feldûnost bianca. Le capre di montagna cornute attraversarono il prato a balzi di una settantina di piedi ciascuno. Il nano sulla destra aveva un piccolo scudo legato al braccio sinistro, ma non portava armi. L'altro invece non aveva scudi ma era pronto a scagliare un giavellotto.
Mentre la distanza tra le barbebianche diminuiva, Eragon trattenne il fiato. Quando furono a meno di trenta piedi l'una dall'altra, il nano con la lancia tagliò l'aria col braccio e scagliò la sua arma contro l'avversario. L'altro non si riparò con lo scudo, ma tese la mano e con incredibile destrezza afferrò il giavellotto per il manico e poi lo brandì sopra la testa. La folla riunita intorno ai recinti esplose in un grido roboante, a cui si unì anche Eragon, battendo le mani con vigore.
«Che abilità!» esclamò Orik, poi rise e scolò il boccale di idromele; la sua lucente cotta di maglia brillava al sole della sera. Indossava un elmo impreziosito con oro, argento e rubini, e sulle dita sfoggiava cinque grossi anelli. Alla vita gli pendeva l'immancabile ascia. Vedra era abbigliata in maniera ancora più ricca: indossava un sontuoso vestito con inserti di tessuto ricamato, al collo portava fili di perle e d'oro lavorato e tra i capelli un pettine d'avorio con incastonato uno smeraldo grande quanto il pollice di Eragon.
Una fila di nani si alzò e diede fiato a una sezione di corni ricurvi; le loro note bronzee echeggiarono in lontananza tra le montagne. Poi un nano con il petto ampio quanto un barile fece un passo avanti e nella sua lingua annunciò il vincitore della gara appena conclusa e i nomi dell'ultima coppia di contendenti pronta ad affrontarsi a Ghastar.
Quando il maestro di cerimonia tacque, Eragon si chinò e chiese a Vedra: «Ci accompagnerai anche tu al Farthen Dûr?»
Lei scosse la testa e fece un gran sorriso. «Non posso. Devo restare qui a occuparmi degli affari dell'Ingeitum mentre Orik non c'è, così al suo ritorno non troverà i guerrieri affamati e i forzieri saccheggiati.»
Ridacchiando, Orik tese il boccale verso uno dei servitori in piedi a diverse iarde di distanza. Mentre il nano correva a una brocca per riempirglielo di idromele, disse a Eragon con orgoglio: «Vedra non esagera. Lei non è solo mia moglie, è anche... Ah, non ci sono parole per descriverla. È la grimstcarvlorss del Dûrgrimst Ingeitum. Significa... sì, insomma, "colei che si occupa della casa", "colei che amministra il focolare". È compito suo assicurarsi che le famiglie del nostro clan paghino le decime stabilite alla Rocca di Bregan, che le nostre greggi siano condotte ai pascoli giusti nel momento giusto, che le nostre scorte di cibo e di grano non diminuiscano troppo, che le donne dell'Ingeitum producano abbastanza stoffa, che i nostri guerrieri siano bene equipaggiati, che i nostri fabbri abbiano sempre ferro da fondere e, in poche parole, che il nostro clan sia organizzato come si deve perché possa prosperare e crescere. Tra noi c'è un detto: "Con una brava grimstcarvlorss il tuo clan prospererà, mentre"...»
«... "mentre con una maldisposta tutto in rovina finirà"» concluse Vedra.
Orik sorrise e le prese una mano tra le sue. «E Vedra è la migliore grimstcarvlorss che ci sia. Non è un titolo ereditario. Se si vuole ricoprire quel ruolo, bisogna dimostrare di meritarselo. È raro che la moglie di un grimstborith sia grimstcarvlorss. Io sono stato molto fortunato.» Lui e Vedra protesero le teste e si stropicciarono i nasi l'uno contro l'altro. Eragon distolse lo sguardo, sentendosi solo ed escluso. Poi Orik si scostò dalla moglie, bevve un sorso di idromele e continuò: «La nostra storia è ricca di celebri grimstcarvlorss. Si dice spesso che l'unica cosa di cui siamo capaci noi capiclan è dichiararci guerra a vicenda e che le grimstcarvlorss ne siano contente, perché finché litighiamo tra noi non abbiamo il tempo di immischiarci negli affari del clan.»
«Andiamo, Skilfz Delva» lo rimproverò Vedra. «Lo sai che non è vero. Almeno non nel nostro caso.»
«Mmm» rispose Orik, e toccò la fronte della moglie con la sua. Si sfregarono i nasi un'altra volta.
Sentendo la folla prorompere in una frenesia di fischi e acclamazioni, Eragon rivolse l'attenzione alla gara. Uno dei concorrenti aveva perso il controllo e all'ultimo momento aveva fatto deviare la sua Feldûnost da un lato: al momento stava cercando di sfuggire all'avversario. Il nano con il giavellotto lo rincorse facendo per due volte il giro dei recinti. Quando si ritrovarono di nuovo vicini, si alzò sulle staffe e scagliò la lancia, colpendo il nano codardo dietro la spalla. Con un grido, il malcapitato cadde dalla capra, poi afferrò la lama e il manico del giavellotto conficcato nella carne. Un guaritore lo raggiunse di corsa. Un momento dopo, tutti voltarono le spalle allo spettacolo.
Orik arricciò il labbro in una smorfia di disgusto. «Bah! Passeranno anni prima che la sua famiglia riesca a cancellare l'onta del disonore. Mi dispiace che tu abbia dovuto assistere a questo deprecabile spettacolo, Eragon.»
«Non è mai piacevole vedere qualcuno umiliarsi a quel modo.»
I tre rimasero seduti in silenzio per le due gare seguenti, poi Orik colse Eragon di sorpresa, lo afferrò per la spalla e gli chiese: «Ti piacerebbe vedere una foresta pietrificata?»
«Non esistono simili prodigi, a meno che non siano sculture.»
Orik scosse il capo; gli brillavano gli occhi. «Non è una scultura, ed esiste davvero. Te lo chiedo di nuovo: ti piacerebbe vedere una foresta pietrificata?»
«Se non mi stai prendendo in giro... sì.»
«Ah, sono felice che tu abbia accettato. No, non sto scherzando: ti prometto che domani tu e io cammineremo tra alberi di granito. È una delle meraviglie dei Monti Beor. Ogni ospite del Dûrgrimst Ingeitum dovrebbe avere l'opportunità di visitarla.»
L'indomani mattina Eragon si alzò dal lettino troppo piccolo nella stanza di pietra con il soffitto basso e i mobili grandi la metà del giusto, si lavò il viso in una bacinella di acqua gelida e, come d'abitudine, espanse la mente verso Saphira, ma avvertì solo i pensieri dei nani e degli animali all'interno della rocca e tutto intorno. Allora barcollò e si chinò in avanti, aggrappandosi al bordo della bacinella, sopraffatto da una sensazione di isolamento. Rimase così, incapace di muoversi e di pensare, finché non vide tutto rosso e strane macchie non gli balenarono davanti agli occhi. Con un sussulto, espirò e riempì di nuovo i polmoni.
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