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L'indomani mattina Eragon si alzò dal lettino troppo piccolo nella stanza di pietra con il soffitto basso e i mobili grandi la metà del giusto, si lavò il viso in una bacinella di acqua gelida e, come d'abitudine, espanse la mente verso Saphira, ma avvertì solo i pensieri dei nani e degli animali all'interno della rocca e tutto intorno. Allora barcollò e si chinò in avanti, aggrappandosi al bordo della bacinella, sopraffatto da una sensazione di isolamento. Rimase così, incapace di muoversi e di pensare, finché non vide tutto rosso e strane macchie non gli balenarono davanti agli occhi. Con un sussulto, espirò e riempì di nuovo i polmoni.

Mi era mancata già durante la discesa dall'Helgrind, pensò, ma almeno allora sapevo che stavo tornando da lei più veloce che potevo. Adesso invece mi sto allontanando e non so quando saremo di nuovo insieme.

Recuperato il controllo, si vestì e si incamminò per i tortuosi corridoi della roccaforte, inchinandosi ai nani che incontrava, i quali da parte loro lo salutavano ripetendo con vigore l'appellativo: «Argetlam!».

Trovò Orik e altri dodici nani nel cortile della rocca, intenti a sellare una fila di robusti pony il cui fiato caldo formava bianchi pennacchi nell'aria gelida. Circondato da quegli omini bassi e corpulenti, Eragon si sentì un gigante.

Orik lo salutò. «Se vuoi cavalcare, abbiamo un asino nelle stalle.» «No, se per voi fa lo stesso io vengo a piedi.»

Orik si strinse nelle spalle. «Come desideri.»

Quando furono pronti per partire, Vedra discese gli ampi scalini di pietra

all'ingresso del salone principale della Rocca di Bregan, lo strascico del vestito dietro di sé, e diede a Orik un corno d'avorio decorato con filigrana d'oro attorno al bocchino e al padiglione. «Apparteneva a mio padre quando cavalcava con il Grimstborith Aldhrim. Te lo affido, affinché tu possa ricordarmi nei giorni a venire» gli disse. Aggiunse dell'altro nella lingua dei nani, a voce così bassa che Eragon non riuscì a sentire, poi lei e Orik si toccarono la fronte. Ritto in sella, il nano diede fiato al corno. Ne uscì una nota profonda e struggente, che aumentò di volume finché l'aria nel cortile non parve vibrare come una corda mossa dal vento. Una coppia di corvi si levò gracchiando dalla torre. Sentendo il suono del corno, a Eragon si raggelò il sangue. Cominciò ad agitarsi sul posto, ansioso di partire.

Rivolto un ultimo sguardo a Vedra, Orik spronò il pony, uscì al trotto dai cancelli principali della roccaforte e puntò a est, verso l'inizio della valle, seguito a ruota da Eragon e dagli altri dodici nani.

Procedettero per tre ore lungo un sentiero ben tracciato sul fianco del monte Thardûr e poi salirono ancora più in alto. I nani spronarono i pony al massimo delle loro possibilità, ma quando Eragon era libero di correre, li batteva comunque in velocità. Pur frustrato, si trattenne dal lamentarsi, perché era chiaro che con i suoi ospiti avrebbe viaggiato più lentamente che non con un elfo o un Kull.

Rabbrividì e si strinse nel mantello. Il sole doveva ancora sorgere sui Monti Beor e una fredda umidità si diffondeva nella valle, anche se mancavano solo poche ore a mezzogiorno.

Raggiunsero una piatta distesa di granito larga più di un migliaio di piedi, delimitata sulla destra da una ripida scogliera di colonne ottagonali. Veli di tremula foschia oscuravano l'estremità del campo di pietra.

Orik alzò una mano e disse: «Guardate, Az Knurldrâthn.»

Eragon si incupì. Per quanto si sforzasse, non riusciva a scorgere nulla di interessante in quel luogo spoglio. «Non vedo nessuna foresta pietrificata.»

Orik scese dal pony e consegnò le redini al guerriero alle sue spalle, poi disse: «Vieni con me, Eragon.»

Si incamminarono insieme verso il mobile banco di nebbia, ed Eragon dovette rallentare perché il nano riuscisse a stargli dietro. La foschia gli baciava il viso, fresca e umida. Il vapore divenne così fitto da oscurare il resto della valle e li avvolse in un grigio paesaggio indistinto, dove perfino l'alto e il basso sembravano concetti arbitrari. Per nulla scoraggiato, Orik avanzò sicuro. Eragon tuttavia si sentiva disorientato e un po' incerto, e camminava tenendo una mano davanti a sé per evitare di urtare contro qualcosa celato nella nebbia.

Orik si fermò sul bordo di uno stretto crepaccio che deturpava la lastra di granito su cui si trovavano e gli chiese: «Cosa vedi adesso?»

Eragon strizzò gli occhi e si guardò intorno, ma la nebbia sembrava uniforme come prima. Stava quasi per dire che non vedeva ancora niente, ma poi notò una lieve irregolarità nella foschia, un tenue gioco di luci e ombre che manteneva la propria forma anche mentre la nebbia fluttuava. Notò altre zone statiche: strani angoli astratti a contrasto che formavano oggetti irriconoscibili.

«Non...» cominciò, quando un alito di vento gli scompigliò i capelli. Incoraggiata appena da quell'improvvisa brezza, la nebbia si diradò e i giochi d'ombra si rivelarono tronchi di grossi alberi cinerei dai rami nudi e mutilati. Eragon e Orik erano circondati da decine di alberi, gli scheletri pallidi di un'antica foresta. Eragon premette il palmo contro un tronco. La corteccia era fredda e dura come sasso, e recava macchie di pallidi licheni. Fu percorso da un brivido. Benché non fosse superstizioso, quella spettrale foschia, la misteriosa penombra e poi la comparsa degli alberi, cupi, carichi di presagi e misteriosi accesero in lui una scintilla di paura.

Si inumidì le labbra e chiese: «Com'è possibile?»

Orik si strinse nelle spalle. «Alcuni sostengono che Gûntera li abbia deposti qui quando creò Alagaësia dal nulla. Altri invece affermano che sono opera di Helzvog, perché la pietra è il suo elemento preferito, e vuoi che il re della pietra non avesse alberi pietrificati nel suo giardino? Tuttavia c'è chi sostiene che questi alberi un tempo fossero come gli altri, ma che eoni fa una grande catastrofe li seppellì e con il passare del tempo il legno diventò terra e la terra pietra.»

«È davvero possibile?»

«Solo gli dei lo sanno con certezza. Chi se non loro può sperare di comprendere i perché e i come del mondo?» Orik si voltò. «I nostri antenati scoprirono il primo albero mentre scavavano in questa zona per estrarre il granito, più di un migliaio di anni fa. L'allora grimstborith del Dûrgrimst Ingeitum, Hvalmar Manomonca, bloccò gli scavi e chiese ai suoi uomini di estrarre gli alberi dalla roccia a colpi di scalpello. Dopo che ne ebbero liberati una cinquantina, Hvalmar si rese conto che potevano esserci centinaia, perfino migliaia di alberi pietrificati sepolti sotto il fianco del Monte Thardûr: così ordinò di abbandonare il progetto. Questo luogo tuttavia ha catturato fin da subito l'immaginazione della nostra razza e da allora i knurlan di ogni clan vengono qui e si danno un gran daffare per liberare sempre più alberi dalla morsa del granito. C'è chi ha dedicato la propria vita a questa impresa. È diventata tradizione mandare qui i figli ribelli a scalpellare almeno un paio d'alberi sotto la supervisione di un mastro muratore.»

«Che noia.»

«Sì, ma così hanno tutto il tempo di pentirsi dei loro errori.» Orik accarezzò con una mano la barba intrecciata. «Quando avevo trentaquattro anni ed ero una testa calda, anch'io trascorsi qui alcuni mesi.»

«E ti sei pentito?»

«Eta. No. In effetti è stata... una noia. Quando mi resi conto che dopo tutte quelle settimane avevo liberato dal granito solo un ramo, fuggii e mi unii a un gruppo di Vrenshrrgn...»

«Cioè nani del clan Vrenshrrgn?»

«Sì, knurlagn del clan Vrenshrrgn, proprio così, Lupi della Guerra o Lupi di Guerra, che dir si voglia nella tua lingua. Dunque, una volta mi ubriacai di birra e mentre loro stavano cacciando dei Nagran decisi che anch'io dovevo uccidere un cinghiale e portarlo a Rothgar per placare la sua ira. Non fu certo una cosa saggia: perfino i nostri guerrieri più abili temevano i Nagran, e io ero ancora un ragazzo. Non appena mi schiarii la mente, mi maledissi per la mia follia, ma ormai avevo giurato, dunque non avevo altra scelta se non rispettare la parola data.»

Quando Orik fece una pausa, Eragon gli chiese: «E cosa accadde?»

«Oh, con l'aiuto dei Vrenshrrgn uccisi un Nagra, ma il cinghiale mi ferì a una spalla e mi scaraventò tra i rami di un albero vicino. I Vrenshrrgn dovettero riportarci entrambi, il Nagra e me, alla Rocca di Bregan. Rothgar fu molto contento del cinghiale, e io... be', nonostante le medicazioni dei nostri migliori guaritori, trascorsi un mese a letto. Rothgar stabilì che fosse una punizione sufficiente per aver sfidato i suoi ordini.»

Eragon osservò il nano. «Ti manca, eh?»

Orik rimase un istante con il mento appoggiato contro l'ampio petto. Poi levò l'ascia e colpì il granito con l'estremità dell'impugnatura, producendo uno schiocco acuto che echeggiò tra gli alberi. «Sono trascorsi quasi due secoli da quando la nostra nazione venne tormentata da una dûrgrimstvren, una guerra tra clan, Eragon. Ma per la barba nera di Morgothal, adesso siamo sull'orlo di un'altra crisi.»

«Proprio adesso?» esclamò Eragon, inorridito. «La situazione è davvero così grave?»

Orik si accigliò. «Peggio di quanto pensi. La tensione tra i clan non è mai stata così alta, non che io ricordi, almeno. La morte di Rothgar e l'invasione dell'Impero a opera di Nasuada sono servite a infiammare gli animi, a inasprire antiche rivalità e a rafforzare chi crede sia una follia affidare il nostro destino ai Varden.»

«Come possono crederlo, dopo che Galbatorix ha già attaccato Tronjheim con gli Urgali?»

«Perché c'è chi crede che sia impossibile sconfiggerlo, e queste argomentazioni hanno molto seguito tra la nostra gente» rispose Orik. «In tutta onestà, Eragon, sei in grado di dirmi che, se tu e Saphira doveste affrontare Galbatorix in questo preciso istante, sareste in grado di batterlo?»

Eragon sentì una morsa alla gola. «No.»

«Come pensavo. Quanti osteggiano i Varden sono accecati dalla minaccia di Galbatorix. Sostengono che se ci fossimo rifiutati di dare rifugio ai Varden e se non avessimo accettato te e Saphira nella nostra bella Tronjheim, il re non avrebbe avuto alcun motivo per dichiararci guerra. Dicono che se ce ne stiamo per conto nostro e restiamo nascosti nelle nostre caverne e nei nostri cunicoli non avremo nulla da temere. Ma non si rendono conto che la fame di potere di Galbatorix è insaziabile e che lui non si darà pace finché non avrà tutta Alagaësia ai suoi piedi.» Orik scosse la testa; strinse la lama dell'ascia tra le grosse dita, e i muscoli dei suoi avambracci si gonfiarono e si tesero. «Non permetterò che la nostra gente viva rannicchiata in un cunicolo come un coniglio spaventato in attesa che il lupo cattivo si metta a scavare e la divori. Dobbiamo continuare a combattere nella speranza di trovare un modo per uccidere Galbatorix. E non permetterò che la nostra nazione venga fatta a pezzi da una guerra tra clan. Date le circostanze, un'altra dûrgrimstvren distruggerebbe la nostra civiltà e forse condannerebbe anche i Varden.» Con la mascella serrata, Orik si volse verso Eragon. «Per il bene del mio popolo, è mia intenzione salire al trono. I clan Gedthrall, Ledwonnû e Nagra mi hanno già confermato il loro sostegno. Tuttavia molti altri si frappongono tra me e la corona; non sarà facile raccogliere abbastanza voti da riuscire a diventare re. Eragon, devo sapere se tu mi appoggerai.»

Il Cavaliere incrociò le braccia e camminò fino a un albero, poi a quello dopo, infine tornò indietro. «Se lo faccio, gli altri clan si potrebbero rivoltare contro di te. Stai per chiedere al tuo popolo di allearsi con i Varden e in più di accettare fra loro un Cavaliere dei Draghi, cosa che non hanno mai tollerato prima e dubito vogliano fare proprio adesso.»

«Sì, qualcuno potrebbe ribellarsi, ma potrei anche ottenere altri voti. Lascia che sia io a giudicare. Desidero solo sapere se mi appoggerai. Perché tanta esitazione?»

Eragon fissò una radice ritorta che spuntava dal granito accanto ai suoi piedi, evitando di incrociare lo sguardo di Orik. «Tu hai a cuore il bene del tuo popolo, e a ragione. Ma io ho preoccupazioni più grandi, che comprendono il bene dei Varden e degli elfi e di chiunque si opponga a Galbatorix. Se le probabilità che tu vinca sono limitate e se c'è un altro capoclan più favorito, e non ostile ai Varden...»

«Ma non esiste un grimstborith più solidale con la loro causa di me!»

«Non sto mettendo in dubbio la tua amicizia» protestò Eragon. «Ma se le cose dovessero prendere la piega di cui parlavo, e il mio sostegno potesse garantire a un altro capoclan di ottenere il trono, per il bene del tuo popolo e per il bene di tutta Alagaësia non dovrei appoggiare il nano che ha le maggiori probabilità di vittoria?»

Con voce tombale, Orik rispose: «Hai prestato un giuramento di sangue sul Knurlnien, Eragon. Secondo la legge del nostro regno, per quanto gli altri possano contestarlo, sei un membro del Dûrgrimst Ingeitum. Ciò che ha fatto Rothgar adottandoti non ha precedenti nella nostra storia e non può essere cancellato a meno che, in qualità di capoclan, io non ti bandisca. Se ti ribelli a me, Eragon, mi umilierai di fronte alla nostra razza e nessuno si fiderà mai più della mia autorità. Inoltre confermerai ai tuoi detrattori che non ci si può fidare di un Cavaliere dei Draghi. I membri di un clan non si schierano a tradimento con quelli di un altro. Non si fa, a meno che tu non voglia svegliarti una notte con un pugnale nel cuore.»

«Mi stai minacciando?» gli chiese Eragon, con la stessa calma.

Orik imprecò e abbatté di nuovo l'ascia contro il granito. «No! Non alzerei mai una mano contro di te! Sei mio fratello adottivo, sei l'unico Cavaliere immune all'influenza di Galbatorix, e che io sia maledetto se non mi sono affezionato a te durante i nostri viaggi insieme. Ma ciò non significa che gli altri membri dell'Ingeitum sarebbero altrettanto indulgenti. La mia non è una minaccia; è un dato di fatto. Devi capirlo, Eragon. Se al nostro clan giunge voce che hai dato il tuo sostegno a un altro, potrei anche non riuscire a fermarli. Benché tu sia nostro ospite e le regole dell'ospitalità ti proteggano, se dici una sola parola contro l'Ingeitum il clan ti considererà un traditore, e non è nostra abitudine accogliere tra noi un traditore. Mi capisci, Eragon?»

«Che cosa ti aspetti che faccia?» gridò il giovane. Allargo le braccia e prese a camminare avanti e indietro di fronte a Orik. «Ho prestato giuramento a Nasuada, e questi sono gli ordini che mi ha dato.»

«Ma ti sei impegnato anche con il Dûrgrimst Ingeitum!» ruggì Orik.

Eragon si fermò e fissò il nano. «Vuoi che condanni l'intera Alagaësia solo perché tu possa mantenere la tua posizione?»

«Non insultarmi!»

«E tu non chiedermi l'impossibile! Ti appoggerò se avrai buone possibilità di salire al trono, altrimenti no. Come tu ti preoccupi del Dûrgrimst Ingeitum e della tua razza, io devo preoccuparmi di Alagaësia.» Eragon si accasciò contro il gelido tronco di un albero. «Ma non posso nemmeno permettermi di offendere te e il tuo - anzi, il nostro - clan o il regno dei nani.»

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