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Nelle ore che seguirono, Eragon si smarrì in un vortice confuso di cibo e bevande, e godette il piacere della buona compagnia. Gli sembrava di essere tornato a casa. Il vino scorreva a fiumi, e dopo averne scolate un paio di coppe gli abitanti del villaggio dimenticarono ogni deferenza e lo trattarono come uno di loro, il dono più grande che potessero fargli. Si dimostrarono altrettanto generosi con Nasuada, ma si trattennero dal rivolgerle battute di spirito, come invece facevano a volte con Eragon. Via via che le candele si consumavano, un pallido fumo colmò la tenda. Accanto a sé, Eragon sentiva risuonare all'infinito la fragorosa risata di Roran; dall'altra parte del tavolo Horst rideva anche più forte. Angela borbottò un incantesimo e con grande divertimento dei presenti fece danzare un omino che aveva modellato con la crosta di una pagnotta. A poco a poco i bambini vinsero la paura per Saphira e osarono avvicinarsi e accarezzarla sul muso. Dopo appena una manciata di minuti, cominciarono ad arrampicarsi sul collo della dragonessa, a dondolarsi sulle sue punte cervicali e a tirarle le creste sopra gli occhi. Eragon li guardava e rideva. Jeod intrattenne i presenti con una canzone che aveva letto in un libro molto tempo prima. Tara ballò una giga. Ogni volta che Nasuada gettava la testa all'indietro, i suoi denti bianchi risplendevano. Dietro le insistenze dei presenti, Eragon narrò molte delle sue avventure, compresa una dettagliata descrizione della sua fuga da Carvahall insieme a Brom, che suscitò un particolare interesse nel pubblico.

«Ma ve lo immaginate? Avevamo una dragonessa nella nostra vallata e non ce ne siamo mai accorti» disse Gertrude, la guaritrice dal viso rubicondo, aggiustandosi lo scialle. Poi sfilò dalle maniche un paio di ferri da calza e li puntò contro Eragon. «E pensare che ti ho curato io quando ti sei graffiato le gambe volando con Saphira, ma non ho mai sospettato niente.» Scosse la testa e schioccò la lingua, poi intrecciò punti con la lana marrone e cominciò a sferruzzare con la velocità di chi vanta un'esperienza decennale.

Esausta per l'avanzata gravidanza, Elain fu la prima ad abbandonare la festa, accompagnata da uno dei figli, Baldor. Mezz'ora dopo anche Nasuada si alzò per tornare al padiglione rosso, spiegando che la sua posizione le impediva di trattenersi fino a quando avrebbe desiderato; augurò a tutti salute e felicità, aggiungendo che sperava che avrebbero continuato a sostenerla nella lotta contro l'Impero.

Mentre si allontanava dal tavolo fece un cenno a Eragon, che la raggiunse all'ingresso. Dando le spalle ai convenuti, gli disse: «So che hai bisogno di tempo per riprenderti dal viaggio e che hai delle faccende personali da sbrigare. Domani e dopodomani potrai fare ciò che vuoi. Ma la mattina del terzo giorno presentati al mio padiglione: dobbiamo parlare del tuo futuro. Ho un'importantissima missione da affidarti.»

«Certo, mia signora.» Poi aggiunse: «Porti Elva con te dappertutto, non è vero?»

«Sì, mi protegge da qualsiasi pericolo dovesse sfuggire ai Falchineri. E poi la sua capacità di prevedere ciò che affligge le persone si è rivelata di grande aiuto. È molto più facile ottenere la collaborazione di qualcuno quando ne conosci le più segrete afflizioni.»

«Sei disposta a rinunciare a lei?»

Nasuada lo trafisse con lo sguardo. «Intendi davvero annullare la maledizione di Elva?»

«Voglio provare. Ricordi? Gliel'avevo promesso.»

«Sì, c'ero anch'io.» Lo schianto di una sedia caduta la distrasse per un istante, poi continuò: «Le tue promesse saranno la nostra morte... Elva è insostituibile; nessun altro ha il suo dono. E l'aiuto che mi dà - negli ultimi giorni ne ho avuto la prova - vale più di una montagna d'oro. Ho pensato addirittura che tra tutti noi sia l'unica che possa sconfiggere Galbatorix. Sarebbe in grado di anticiparne ogni mossa e grazie al tuo incantesimo saprebbe come contrattaccare e uscirne comunque vincitrice, purché questo non le costi la vita... Per il bene dei Varden, Eragon, per il bene di tutta Alagaësia, non potresti solo fingere di guarirla?»

«No» rispose lui, sputando la risposta come risentito. «Non lo farei nemmeno se potessi. Sarebbe sbagliato. Se costringiamo Elva a restare com'è, ci si rivolterà contro, e non voglio averla come nemica.» Si interruppe, poi, vedendo l'espressione di Nasuada, aggiunse: «E ci sono ottime possibilità che io fallisca. Nella migliore delle ipotesi, rimuovere un incantesimo pronunciato in termini tanto vaghi è una cosa molto difficile... Posso darti un consiglio?»

«Prego.»

«Sii sincera con Elva. Spiegale quanto è importante per i Varden e chiedile se vuole continuare a portare questo fardello per il bene di tutte le persone libere. Potrebbe anche rifiutare, ne ha ogni diritto, e in quel caso non potremmo più contare su di lei. Se accetta, invece, sarà stata una sua scelta.»

Aggrottando appena la fronte, Nasuada annuì. «Le parlerò domani. Dovrai essere presente anche tu per aiutarmi a convincerla e, se dovessimo fallire, annullare la maledizione. Vieni nel mio padiglione tre ore dopo l'alba.» Poi si incamminò nella notte illuminata dalle torce.

Molto più tardi, quando le candele brillavano fioche sui loro sostegni e gli abitanti del villaggio cominciavano a disperdersi in gruppi di due o tre, Roran afferrò Eragon per il gomito e lo trascinò fuori dalla tenda, per poi fermarsi vicino a Saphira, dove gli altri non avrebbero sentito. «Ciò che hai detto prima dell'Helgrind era tutto vero?» gli domandò. Gli stringeva il braccio a tal punto che a Eragon parve di avere un paio di tenaglie di ferro conficcate nella carne. Aveva lo sguardo duro e interrogativo, e anche insolitamente vulnerabile.

Eragon lo fissò. «Se ti fidi di me, Roran, non chiedermelo mai più. Non sono cose che ti riguardano.» Perfino mentre parlava, Eragon avvertiva una profonda sensazione di disagio per il fatto di dover nascondere a Roran e Katrina che Sloan era ancora vivo. Sapeva che l'inganno era necessario, tuttavia mentire alla sua famiglia lo metteva in difficoltà. Per un momento prese in considerazione l'ipotesi di dire loro la verità, poi però gli tornarono in mente tutte le ragioni per cui aveva deciso di non farlo e tenne a freno la lingua.

Roran esitò, turbato, poi serrò la mascella e gli lasciò andare il braccio. «Sì, mi fido di te. Dopotutto, si fa così in una famiglia, no? Ci si fida.»

«E ci si uccide.»

Roran rise e si strofinò il naso con il pollice. «Già, si fa anche quello.» Fece roteare le massicce spalle curve e massaggiò quella destra, un'abitudine che gli era rimasta da quando il Ra'zac l'aveva morso. «Ho un'altra domanda.»

«Dimmi.»

«Mi serve una benedizione... un favore.» Un sorriso astuto gli si dipinse sulle labbra, poi si strinse nelle spalle. «Mai avrei pensato di parlarne proprio con te, Eragon. In fondo sei più giovane di me, da poco hai raggiunto la maggiore età e per giunta sei mio cugino.»

«Parlare? E di cosa? Vieni al punto.»

«Di matrimonio» rispose Roran, e levò il mento. «Vuoi celebrare il matrimonio tra me e Katrina? Mi farebbe molto piacere, e anche se non le ho voluto anticipare niente prima di avere la tua risposta, so che lei sarebbe altrettanto onorata se tu accettassi.»

Eragon, sbalordito, rimase senza parole. Alla fine riuscì a balbettare: «Io?» Poi si affrettò a dire: «Ne sarei felice, ovvio, ma... io? Sei sicuro di volere che sia io a farlo? Sono certo che Nasuada accetterebbe di sposarvi... Oppure potreste chiederlo a re Orrin, lui è un vero re! Se ciò lo aiutasse a conquistarsi i miei favori, farebbe salti di gioia all'idea di presiedere la cerimonia.»

«Voglio che sia tu a farlo, Eragon» rispose Roran, dandogli una pacca sulla spalla. «Sei un Cavaliere, e poi sei l'unica persona ancora in vita nelle cui vene scorre il mio stesso sangue; Murtagh non conta. Non mi viene in mente nessun altro che potrebbe legare il mio polso a quello di Katrina.»

«Allora d'accordo» rispose Eragon. Roran lo abbracciò, stringendolo con tutta la sua forza prodigiosa, e lo lasciò senza fiato. Quando alla fine lo lasciò, Eragon ci mise un po' a riprendersi, poi gli domandò: «Quando? Nasuada ha una missione da affidarmi. Non conosco ancora i dettagli, ma immagino che mi terrà occupato per un bel po'. Dunque... che ne dici del mese prossimo, se la situazione lo permetterà?»

Roran incassò il collo nelle spalle e scosse la testa come un toro che strofina le corna in un cespuglio di rovi. «Dopodomani?»

«Così presto? Non state correndo un po' troppo? Non c'è nemmeno il tempo per i preparativi. La considereranno tutti una cosa inopportuna.»

Roran drizzò le spalle; gli si gonfiarono le vene delle mani mentre apriva e stringeva i pugni. «Non posso aspettare. Se non ci sposiamo subito, le vecchie comari avranno qualcosa di ben più interessante della mia impazienza di cui sparlare. Ci siamo capiti?»

A Eragon ci volle un momento per afferrare il significato di quelle parole, ma poi non riuscì a evitare che gli si stampasse sulla faccia un gran sorriso. Roran diventerà padre! pensò. Ancora sorridendo, gli disse: «Credo di sì. E sia, vada per dopodomani.» Grugnì quando Roran lo abbracciò di nuovo, dandogli una pacca sulla schiena, ma riuscì a liberarsi, seppur con qualche difficoltà.

«Ti sono debitore» rispose Roran, ricambiando il sorriso. «Grazie. Adesso vado a dare la notizia a Katrina, poi faremo il possibile per organizzare il banchetto di nozze. Appena l'avremo decisa, ti farò sapere l'ora esatta.»

«Perfetto.»

Roran si incamminò verso la sua tenda, poi si voltò e lanciò le braccia in alto, come se volesse stringersi al petto il mondo intero. «Eragon, mi sposo!»

Eragon scoppiò a ridere e gli fece un cenno di saluto con la mano. «Muoviti, pazzo che non sei altro. Katrina ti sta aspettando.»

Non appena il cugino fu rientrato nella sua tenda, Eragon si arrampicò su Saphira. «Blödhgarm» chiamò. Silenzioso più di un'ombra, l'elfo scivolò alla luce, gli occhi gialli che brillavano come brace. «Io e Saphira andiamo a fare un voletto. Ci vediamo dopo, da me.»

«Come vuoi, Ammazzaspettri» rispose Blödhgarm, chinando il capo.

Poi Saphira dispiegò le immense ali, fece tre passi di corsa e si lanciò sopra la fila di tende, sferzandole col gran vento sollevato dal battito. I movimenti del suo corpo scossero Eragon, che per non cadere si aggrappò alla punta cervicale della dragonessa. Saphira salì a spirale finché l'accampamento illuminato si ridusse a un insignificante fazzoletto di luce, minuscolo rispetto al paesaggio buio che lo circondava. Rimasero lassù, fluttuando tra terra e cielo, dove tutto era silenzio.

Eragon posò la testa sul collo della dragonessa e guardò la scintillante striscia di polvere che attraversava il cielo.

Riposa, se vuoi, piccolo mio, disse Saphira, non ti lascerò cadere.

Ed Eragon scivolò nel suo sonno vigile, ma fu assalito dalle visioni: una città di pietra, dal perimetro circolare, che sorgeva in mezzo a una pianura infinita, e una bambina che vagava tra i tortuosi vicoli angusti cantando una melodia ossessiva.

La notte si trascinava lenta verso il mattino.

INTRECCIO DI SAGHE

Passata da poco l'alba, Eragon era seduto sulla branda a oliare l'usbergo di maglia, quando uno degli arcieri dei Varden venne a implorarlo di salvare sua moglie, afflitta da un tumore maligno. Benché mancasse meno di un'ora all'appuntamento con Nasuada, Eragon accettò e accompagnò l'uomo alla sua tenda. Trovò la donna molto indebolita dalla crescita della massa tumorale e dovette fare appello a tutti i suoi poteri per estrarre le insidiose propaggini della malattia dalla carne. Per lo sforzo si ritrovò spossato, ma fu felice di essere riuscito a salvare quella donna da una morte lunga e dolorosa.

Poi raggiunse Saphira fuori e rimase con lei qualche minuto, accarezzandole i muscoli vicino alla base del collo. La dragonessa faceva le fusa, ondeggiava la coda sinuosa e torceva la testa e le spalle così che Eragon potesse raggiungere più facilmente la pelle liscia. Mentre eri occupato con l'arciere, altre persone sono venute a chiederti udienza, ma Blödhgarm e i suoi li hanno allontanati perché le loro richieste non erano urgenti, gli disse.

Davvero? Le infilò le dita sotto il bordo di una delle grosse squame che aveva sul collo e grattò con più forza. Forse dovrei fare come Nasuada.

Cioè?

Il sesto giorno di ogni settimana, dal mattino fino a mezzodì, la regina riceve chiunque abbia richieste o dispute da sottoporre alla sua attenzione. Potrei fare la stessa cosa.

Bella idea, rispose Saphira. Solo che dovrai stare attento a non sprecare troppa energia per dar retta alle persone. Dobbiamo essere pronti a combattere contro l'Impero da un momento all'altro. Poi gli spinse il collo contro la mano, facendo ancora più forte le fusa.

Mi serve una spada, le disse Eragon.

E allora trovane una.

Mmm...

Eragon continuò a coccolarla finché Saphira non si scostò e disse: Se non ti sbrighi, arriverai in ritardo all'appuntamento con Nasuada.

Si avviarono verso il centro dell'accampamento e il padiglione rosso. Non era molto distante, così la dragonessa decise di camminare insieme a lui invece di librarsi tra le nuvole.

A un centinaio di metri dal padiglione si imbatterono in Angela l'erborista. Era inginocchiata tra due tende e indicava un quadrato di pelle disteso su una roccia bassa e piatta su cui giaceva un mucchio disordinato di ossi lunghi un dito, ogni lato marchiato con un simbolo diverso: erano gli ossi di zampa di drago con cui gli aveva predetto il futuro a Teirm.

Di fronte a lei c'era una donna alta e con le spalle larghe, la pelle abbronzata e segnata dalle intemperie, i capelli neri raccolti in una lunga e folta treccia che le ricadeva sulla schiena, il viso ancora grazioso nonostante le profonde rughe che gli anni le avevano scolpito intorno alla bocca. Indossava un abito rosso scuro che le stava piccolo, tanto che le maniche erano corte e le lasciavano scoperta gran parte degli avambracci. Attorno a ogni polso aveva una benda di tela nera, ma quella sul sinistro si era allentata, e le era scivolata fino al gomito; Eragon poté così scorgere spessi strati di cicatrici, provocate di sicuro dal continuo sfregamento di un paio di manette. Intuì che doveva essere stata rapita dai nemici e che si era ribellata, lacerandosi i polsi fino all'osso. Si domandò se era una criminale o una schiava, e al pensiero che qualcuno potesse essere così crudele da permettere a un prigioniero sotto la propria custodia di ferirsi a quel modo, benché da solo, si incupì.

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