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Re Orrin intrecciò le dita sotto il mento e fissò una piega del suo vestito. «Ho detto più di quanto volessi... Quindi, per questo motivo e altri ancora, sono d'accordo con Nasuada. Hai fatto bene a trattenere la mano quando hai trovato questo Sloan nell'Helgrind. Per quanto increscioso possa essere questo episodio, sarebbe stato peggio, soprattutto per te, se lo avessi ucciso per tua soddisfazione personale e non per difenderti o per servire gli altri.»

Nasuada annuì. «Parole sacrosante.»

Per tutto il tempo, Arya aveva ascoltato con un'espressione indecifrabile. Quali che fossero i suoi pensieri, non li manifestò.

Orrin e Nasuada fecero a Eragon tutta una serie di domande sui giuramenti che aveva imposto a Sloan, come anche sul resto del viaggio. L'interrogatorio proseguì così a lungo che Nasuada fece portare un vassoio con sidro ghiacciato, frutta e pasticcio di carne, insieme a un quarto di manzo per Saphira. Nasuada e Orrin ebbero l'opportunità di mangiare fra una domanda e l'altra, ma Eragon era così impegnato a parlare che riuscì a dare appena due morsi a un frutto e a bere qualche sorso di sidro per bagnarsi la gola.

Alla fine re Orrin si congedò per andare a passare in rivista la sua cavalleria. Arya uscì dal padiglione un minuto dopo, spiegando che doveva fare rapporto alla regina Islanzadi. «Chiederò che mi venga scaldata una tinozza d'acqua» aggiunse «per lavarmi via la sabbia dalla pelle, e poi riprenderò il mio aspetto consueto. Non mi sento a mio agio senza le orecchie a punta e con gli occhi rotondi e diritti, e le ossa del viso nei posti sbagliati.»

Quando fu rimasta sola con Eragon e Saphira, Nasuada sospirò e abbandonò la testa contro lo schienale dello scranno. Eragon rimase colpito da quell'improvvisa manifestazione di stanchezza. Scomparsa era la sua vitalità, scomparsa l'imperiosa presenza, scomparso il fuoco dai suoi occhi. In quel momento Eragon capì che Nasuada aveva finto di essere più forte di quanto era per evitare di allettare i nemici e di demoralizzare i Varden con lo spettacolo della sua debolezza.

«Stai male?» le chiese.

Lei si guardò le braccia. «Non proprio. È solo che impiegano più tempo del previsto a guarire... Certi giorni sono peggio di altri.»

«Se vuoi, posso...»

«No. Grazie, no. Non mi tentare. Una delle regole della Prova dei Lunghi Coltelli è che devi lasciare che le ferite guariscano da sole, senza magia. Altrimenti i contendenti non sperimenterebbero la piena misura del dolore.»

«Ma è una barbarie!»

Un lieve sorriso le affiorò sulle labbra. «Può darsi, ma le cose stanno così e non fallirò a prova ormai conclusa solo perché non riesco a sopportare un po' di dolore.»

«E se le ferite si infettano?»

«Se si infettano, pagherò il prezzo del mio errore. Ma dubito che accadrà finché c'è Angela a curarle. La sua conoscenza delle piante medicinali è straordinaria. Sono quasi convinta che saprebbe dire il vero nome di ogni specie di piante delle pianure a est di questo accampamento soltanto toccandone le foglie.»

Saphira, che era rimasta così immobile da sembrare addormentata, sbadigliò - le fauci quasi toccavano il pavimento e il soffitto -, scrollò la testa e distese il collo, facendo vorticare a una velocità da capogiro i puntini di luce che le squame proiettavano sulle pareti della tenda.

Raddrizzandosi sullo scranno, Nasuada disse: «Ah, mi dispiace. So quanto dev'essere stato noioso. Siete stati tutti e due molto pazienti. Grazie.»

Eragon s'inginocchiò e posò una mano sulle sue. «Non devi preoccuparti per me, Nasuada. Conosco i miei doveri. Non ho mai aspirato al comando: non è questo il mio destino. E se mai mi venisse offerto un trono, lo rifiuterei, assicurandomi che lo occupasse qualcuno di più adatto di me a guidare la nostra razza.»

«Sei una brava persona, Eragon» mormorò Nasuada, e gli strinse la mano fra le sue. Poi ridacchiò. «Fra te, Roran e Murtagh, passo la maggior parte del tempo a preoccuparmi dei membri della tua famiglia.»

Eragon alzò il capo a quelle parole, irato. «Murtagh non fa parte della mia famiglia.»

«Ma certo. Perdonami. Eppure devi ammettere che è straordinaria la mole di problemi che tutti e tre avete riversato sia sull'Impero che sui Varden.»

«È la nostra specialità» scherzò Eragon.

Scorre nel loro sangue, disse Saphira. Ovunque vadano, s'infilano nei peggiori pericoli possibili. Toccò il braccio di Eragon col muso. Soprattutto questo qui. Ma cos'altro ci si può aspettare dai nati nella Valle Palancar? Tutti discendenti di un re folle.

«Ma non folli» disse Nasuada. «Almeno, non credo. È difficile dirlo, a volte.» Scoppiò a ridere. «Se tu, Roran e Murtagh veniste chiusi nella stessa cella, non so chi sopravviverebbe.»

Anche Eragon rise. «Roran. Non permetterebbe mai a una cosuccia insignificante come la morte di intromettersi fra lui e Katrina.»

Il sorriso di Nasuada si fece più teso. «Già, immagino di no.» Per un minuto rimase in silenzio, poi disse: «Ah, ma quanto sono egoista. La giornata è quasi finita e io sono qui a trattenerti solo per il gusto di un paio di minuti di amena conversazione.»

«Il piacere è mio.»

«Sì, ma ci sono posti migliori di questo per quattro chiacchiere fra amici. Dopo quello che hai passato, immagino che tu abbia voglia di un bel bagno, di abiti puliti, e di un pasto come si deve, dico bene? Devi avere una fame da lupi!» Eragon scoccò un'occhiata alla mela che aveva appena addentato, e decise che sarebbe stato villano continuare a mangiare quando il suo incontro con Nasuada stava volgendo al termine. Nasuada si accorse del suo sguardo e disse: «Il tuo volto risponde per te, Ammazzaspettri. Be', non prolungherò questa tortura. Sembri un lupo affamato. Vai a lavarti e a metterti la tua tunica migliore. Quando sarai presentabile, sarò lieta se accetterai il mio invito a cena. Sappi che non sarai il mio unico ospite, perché gli affari dei Varden richiedono la mia costante attenzione, ma mi alleggerirai di parecchio la fatica se decidi di partecipare.»

Eragon represse una smorfia al pensiero di altre lunghe ore passate a parare affondi e stoccate verbali da parte di coloro che cercavano di usarlo a proprio vantaggio o per soddisfare la propria curiosità sui Cavalieri e i draghi. Eppure non si poteva dire di no a Nasuada, e così s'inchinò e accettò l'invito.

FESTA FRA AMICI

Eragon e Saphira uscirono dal padiglione rosso di Nasuada attorniati dal contingente di elfi e si incamminarono verso la piccola tenda che era stata loro assegnata quando si erano uniti ai Varden sulle Pianure Ardenti. Lì Eragon trovò ad attenderlo un barilotto d'acqua calda, le spire di vapore opalescenti nella luce obliqua del grande sole della sera, ma sul momento lo ignorò, e si chinò per entrare nella tenda.

Dopo avere controllato che nessuno dei suoi averi fosse stato toccato mentre era lontano, Eragon si liberò dello zaino e ne tolse l'armatura con cautela, riponendola sotto la branda. Andava pulita e oliata, ma poteva aspettare. Poi rovistò ancora sotto la branda, graffiando con le dita la parete di tessuto, e cercò a tastoni finché non raggiunse un oggetto lungo e solido. Afferrò il pesante fagotto e se lo appoggiò sulle ginocchia. Sciolse i nodi che chiudevano la stoffa e poi, partendo dall'estremità più voluminosa, cominciò a sbrogliare le strisce di tela grezza.

Un pollice dopo l'altro, apparve la consunta impugnatura di cuoio della spada di Murtagh. Quando ebbe sfoderato l'elsa, la guardia crociata e buona parte della scintillante lama, dentellata come una sega nei punti in cui si era opposta a Zar'roc, si fermò.

Rimase seduto a fissare l'arma, combattuto. Non sapeva che cosa l'avesse spinto a farlo, ma il giorno dopo la battaglia era tornato sul pianoro e aveva recuperato la spada dal pantano dove Murtagh l'aveva abbandonata. Benché fosse rimasta esposta alle intemperie una sola notte, sull'acciaio era apparso un velo di macchioline di ruggine, che Eragon aveva subito dissolto con un incantesimo. Forse si era sentito in obbligo di prendere la spada di Murtagh perché Murtagh gli aveva rubato la sua, come se lo scambio, seppur impari e imposto, potesse compensare la perdita. O forse desiderava conservare un ricordo di quel sanguinoso conflitto. O forse nutriva ancora una sorta di affetto latente per Murtagh, nonostante le squallide circostanze che li avevano visti schierati l'uno contro l'altro. Per quanto aborrisse ciò che era diventato Murtagh e insieme provasse compassione per lui, non poteva negare il legame che c'era tra loro. Condividevano un destino comune. Se non fosse stato per un caso legato alla loro nascita, Eragon forse sarebbe stato allevato a Urû'baen e Murtagh nella Valle Palancar, e i loro ruoli avrebbero potuto essere scambiati. Le loro vite erano legate inesorabilmente.

Mentre osservava l'acciaio splendente, Eragon pronunciò un incantesimo per cancellare i graffi dalla lama, eliminare le sbeccature lungo i bordi e ristabilire la solidità della tempra. Tuttavia si domandò se fosse il caso. Aveva tenuto la cicatrice che gli aveva procurato Durza come ricordo del loro incontro, almeno finché i draghi non l'avevano cancellata durante l'Agaetí Blödhren. Avrebbe dovuto conservare anche quest'altra cicatrice? Sarebbe stato un bene per lui portare alla cintura un ricordo così doloroso? E se avesse scelto di impugnare la lama di un traditore, quale messaggio avrebbe trasmesso ai Varden? Zar'roc era stata un dono di Brom: allora non aveva potuto rifiutarla, e nemmeno gli dispiaceva di averla accettata. Ma adesso non aveva alcun obbligo di reclamare per sé l'anonima arma che teneva sulle gambe.

Ho bisogno di una spada,

pensò.

Ma non di questa.

La riavvolse nel sudario di tela e la ripose sotto la branda. Poi, con una camicia e una tunica pulite sotto il braccio, uscì e andò a lavarsi.

Pulito ed elegante nella camicia e nella tunica di fine làmarae, uscì per andare all'appuntamento con Nasuada vicino alle tende dei guaritori, come lei gli aveva chiesto. Saphira ci andò in volo, dicendo che l'accampamento era troppo affollato e continuava a inciampare nelle tende. E poi se cammino al tuo fianco verremo accerchiati da una tale folla che non riusciremo a muovere nemmeno un passo.

Nasuada li aspettava accanto a una fila di tre aste, da cui penzolavano flosci cinque o sei vivaci stendardi nell'aria fresca della sera. Da quando si erano separati, la regina si era cambiata d'abito e adesso indossava un leggero vestito estivo di un delicato color paglia. Aveva raccolto i capelli folti come muschio in un'acconciatura alta, un intricato ammasso di nodi e treccine tenuto insieme da un nastro bianco.

Sorrise a Eragon, che ricambiò e affrettò il passo. A mano a mano che si avvicinava, le sue guardie si mischiarono a quelle della regina con evidente dimostrazione di sospetto da parte dei Falchineri e studiata indifferenza da parte degli elfi.

Nasuada lo prese sottobraccio e, mentre parlavano tranquilli, lo guidò attraverso la distesa di tende. Saphira volteggiava sull'accampamento, in attesa che giungessero a destinazione prima di affrontare la fatica dell'atterraggio. Il Cavaliere e la regina parlarono di molte cose. Nulla di importante, ma Eragon rimase affascinato dall'acume, dall'allegria e dall'attenzione dei commenti di Nasuada. Parlare con lei gli risultava facile, ancora di più ascoltarla, e fu proprio quella disinvoltura a fargli capire quanto le volesse bene. L'ascendente che aveva su di lui superava di molto il normale rapporto tra signore e vassallo. Il loro legame era un sentimento nuovo. A parte la zia Marian, di cui serbava solo un vago ricordo, Eragon era cresciuto in un mondo di uomini e non aveva mai avuto l'opportunità di fare amicizia con una donna. Era inesperto e insicuro, e anche goffo, ma Nasuada non sembrava farci caso.

Lo fece fermare di fronte a una tenda. Dentro risplendeva la luce di mille candele e risuonava una moltitudine di voci incomprensibili. «È giunto il momento di rituffarci nel pantano della politica. Preparati.»

Quando Nasuada scostò il lembo di stoffa all'ingresso, una folla di persone gridò: «Sorpresa!» ed Eragon ebbe un sussulto. In mezzo alla tenda dominava un ampio tavolo sostenuto da cavalletti e traboccante di cibo, a cui erano seduti Roran, Katrina e una ventina di abitanti di Carvahall, tra cui Horst e la sua famiglia, Angela l'erborista, Jeod e la moglie Helen e diverse altre persone che Eragon non conosceva ma che avevano tutta l'aria di essere marinai. Cinque o sei bambini che stavano giocando per terra accanto al tavolo si bloccarono di colpo e fissarono Eragon e Nasuada a bocca aperta, quasi incapaci di decidere quale tra le due strane figure meritasse di più la loro attenzione.

Sopraffatto, Eragon fece un gran sorriso. Prima che gli venisse in mente qualcosa da dire, Angela levò il boccale e lo invitò: «Be', non startene lì impalato! Vieni a sederti. Muoio di fame!»

Scoppiarono a ridere tutti e Nasuada trascinò Eragon verso le due sedie libere vicino a Roran. Eragon la aiutò a prendere posto, poi si sedette e le chiese: «Hai organizzato tu tutto questo?»

«Roran mi ha suggerito chi invitare, ma... sì, è stata un'idea mia. Come puoi vedere ho aggiunto di mia iniziativa qualche nome alla lista degli ospiti.»

«Grazie» rispose umilmente Eragon. «Grazie davvero.»

Vide Elva seduta a gambe incrociate in fondo alla tenda, sulla sinistra, con un piatto in grembo. Gli altri bambini la evitavano - non che avessero molto in comune, si disse - e nemmeno gli adulti, tranne Angela, sembravano a proprio agio in sua presenza. La bambina minuta con le spalle spioventi alzò il capo e lo guardò da dietro la frangetta nera con quei suoi terribili occhi viola, poi scandì due mute parole, forse: "Salve, Ammazzaspettri."

"Salve, Veggente" rispose lui allo stesso modo muto. Le piccole labbra rosa di Elva si distesero in un sorriso che sarebbe stato affascinante non fosse stato per le feroci orbite ardenti che lo sovrastavano.

All'improvviso il tavolo tremò, i piatti presero a tintinnare e le pareti della tenda si gonfiarono. Eragon si aggrappò ai braccioli della sedia. Contro la parete di fondo si profilò uno strano rigonfiamento, poi fece capolino Saphira. Carne! esclamò. Sento odore di carne!

Nelle ore che seguirono, Eragon si smarrì in un vortice confuso di cibo e bevande, e godette il piacere della buona compagnia. Gli sembrava di essere tornato a casa. Il vino scorreva a fiumi, e dopo averne scolate un paio di coppe gli abitanti del villaggio dimenticarono ogni deferenza e lo trattarono come uno di loro, il dono più grande che potessero fargli. Si dimostrarono altrettanto generosi con Nasuada, ma si trattennero dal rivolgerle battute di spirito, come invece facevano a volte con Eragon. Via via che le candele si consumavano, un pallido fumo colmò la tenda. Accanto a sé, Eragon sentiva risuonare all'infinito la fragorosa risata di Roran; dall'altra parte del tavolo Horst rideva anche più forte. Angela borbottò un incantesimo e con grande divertimento dei presenti fece danzare un omino che aveva modellato con la crosta di una pagnotta. A poco a poco i bambini vinsero la paura per Saphira e osarono avvicinarsi e accarezzarla sul muso. Dopo appena una manciata di minuti, cominciarono ad arrampicarsi sul collo della dragonessa, a dondolarsi sulle sue punte cervicali e a tirarle le creste sopra gli occhi. Eragon li guardava e rideva. Jeod intrattenne i presenti con una canzone che aveva letto in un libro molto tempo prima. Tara ballò una giga. Ogni volta che Nasuada gettava la testa all'indietro, i suoi denti bianchi risplendevano. Dietro le insistenze dei presenti, Eragon narrò molte delle sue avventure, compresa una dettagliata descrizione della sua fuga da Carvahall insieme a Brom, che suscitò un particolare interesse nel pubblico.

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