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Se puoi, vieni a trovarmi domani, così potremo parlare con più calma. Mi innervosisco, a stare qui seduta tutto il giorno. Potresti raccontarmi qualcosa su com'era Eragon prima che facessi schiudere il mio uovo tra le sue mani.

Sarebbe... sarebbe un onore.

Soddisfatta di aver dato il benvenuto a Roran e di avere obbedito alle fondamentali regole di cortesia in vigore tra i bipedi con le orecchie rotonde, e rincuorata nel sapere che l'indomani sarebbe stata una giornata un po' meno noiosa del solito, perché era impensabile che qualcuno osasse ignorare la richiesta di un drago, Saphira si sistemò come meglio poté sulla nuda terra. Come spesso le capitava, avrebbe tanto voluto trovarsi ancora nel soffice nido dell'alloggio di Eragon a Ellesméra, dentro l'albero sferzato dal vento. Sospirò, si lasciò sfuggire uno sbuffo di fumo, poi si addormentò e sognò di volare più in alto che mai.

Batté le ali finché non ebbe superato le irraggiungibili vette dei Monti Beor. Poi volò in circolo per un po', ammirando tutta Alagaësia sotto di sé. Infine la colse un irrefrenabile desiderio di salire ancora più su; allora riprese a dare colpi d'ala e in un batter d'occhio, almeno così le parve, superò la luna abbagliante finché nel cielo scuro non rimasero che lei e le stelle argentee. Si librò lassù per un intervallo di tempo indefinito, regina del mondo sottostante, luminoso come un gioiello; poi però l'inquietudine fece breccia nel suo cuore e la dragonessa gridò i suoi pensieri:

Eragon, dove sei?

♦ ♦ ♦

BACIAMI DOLCEMENTE

Al risveglio, Roran si liberò dalle morbide braccia di Katrina e si sedette a torso nudo sul bordo della branda che condividevano. Sbadigliò e si stropicciò gli occhi, poi guardò la pallida striscia di luce del fuoco che filtrava tra i due lembi di stoffa all'ingresso e si sentì ottuso e stordito per la stanchezza accumulata. Avvertì un brivido di freddo, ma rimase dov'era, immobile.

«Roran» lo chiamò Katrina con voce assonnata, poi si sollevò appoggiandosi a un braccio e con l'altro lo cercò. Quando gli passò la mano sulla schiena e gli accarezzò il collo, lui non reagì. «Dormi. Hai bisogno di riposare. Fra non molto dovrai ripartire.»

Roran scosse il capo senza guardarla.

«Che c'è?» gli chiese Katrina. Si mise a sedere, gli coprì le spalle con una coperta, poi si appoggiò a lui, la guancia calda contro il suo braccio. «Sei preoccupato per il nuovo capitano o per la destinazione che ti assegnerà Nasuada?»

«No.»

Katrina rimase in silenzio un istante. «Ogni volta che te ne vai, mi sembra che a ritornare sia una parte sempre più piccola di te. Sei diventato così cupo e silenzioso... Sai che puoi dirmi che cosa ti turba, per quanto terribile. Lo sai, vero? Sono la figlia di un macellaio, e ho visto anch'io molti uomini cadere in battaglia.»

«Che cosa mi turba?» esclamò Roran, e le parole gli si strozzarono in gola. «Non ci voglio pensare mai più.» Serrò i pugni, il respiro incerto. «Un vero guerriero non si sentirebbe così.»

«Un vero guerriero non combatte perché vuole ma perché deve» rispose lei. «Un uomo che brama la guerra, che si diverte a uccidere, è un bruto e un mostro. Per quanta gloria conquisti sul campo di battaglia, non sarebbe migliore di un lupo rabbioso, sempre pronto a scagliarsi contro i suoi amici e la sua famiglia quanto contro i nemici.» Gli scostò i capelli dalla fronte e gli accarezzò la testa, piano, con dolcezza. «Una volta mi hai detto che tra le storie di Brom La canzone di Gerand era la tua preferita: per questo combatti con un martello invece che con una spada. Ti ricordi che a Gerand non piaceva uccidere ed era riluttante all'idea di imbracciare di nuovo le armi?»

«Sì.»

«E tuttavia era considerato il più grande guerriero della sua epoca.» Katrina gli prese le guance tra le mani e gli volse il viso verso di sé, in modo che fosse costretto a guardarla negli occhi severi. «E tu sei il più grande guerriero che conosca, qui e in qualunque altra parte del mondo.»

Con la bocca asciutta, Roran rispose: «Ed Eragon, o...?»

«No. Eragon, Murtagh, Galbatorix, gli elfi... non valgono nemmeno la metà di te, perché loro marciano in battaglia forti di incantesimi sulle labbra e di un potere che eccede di gran lunga il nostro. Ma tu...» - e lo baciò sul naso - «... tu sei solo un uomo. Affronti i tuoi nemici contando solo sulle tue gambe. Non sei un mago, eppure hai sconfitto i Gemelli. Sei veloce e forte quanto può esserlo un uomo, tuttavia non hai rinunciato ad attaccare i Ra'zac nel loro covo e a liberarmi dal loro sotterraneo.»

Roran deglutì. «Sì, ma c'erano gli incantesimi di Eragon a proteggermi.»

«Ora non più. E poi a Carvahall non avevi difese, ma sei forse fuggito davanti ai Ra'zac?» Vedendo che il marito non rispondeva, Katrina proseguì: «Tu sei solo un uomo, ma hai fatto cose che nemmeno Eragon o Murtagh sarebbero mai riusciti a eguagliare. Ai miei occhi questo ti rende il più grande guerriero di Alagaësia... Non conosco nessun altro a Carvahall che avrebbe viaggiato per mari e monti pur di salvarmi.»

«Tuo padre.»

La sentì rabbrividire. «Sì, è vero» sussurrò. «Ma non sarebbe mai stato capace di convincere altri a seguirlo come hai fatto tu.» Lo abbracciò forte. «Qualunque cosa tu abbia visto o fatto, io sarò sempre con te.»

«È tutto ciò di cui ho bisogno» disse Roran, poi la prese tra le braccia e la tenne stretta a sé. Infine sospirò. «Ma vorrei che questa guerra finisse. Vorrei tornare ad arare i campi, a seminare e a mietere il raccolto quand'è maturo. A mandare avanti una fattoria c'è da spaccarsi la schiena, ma almeno è un lavoro onesto. Uccidere non è onesto. È come rubare... sì, rubiamo la vita di altri uomini, e nessuno nel pieno delle proprie facoltà dovrebbe aspirare a tanto.»

«Come ho detto io.»

«Sì, infatti.» Per quanto fosse difficile, si sforzò di sorridere. «Me n'ero dimenticato. Sto qui a gettarti addosso i miei problemi quando tu ne hai già abbastanza.» E le posò una mano sul ventre.

«I tuoi problemi sono anche i miei, almeno finché saremo sposati» mormorò Katrina, strofinandogli il viso contro il braccio.

«Certi problemi non si dovrebbero condividere con nessuno, soprattutto non con le persone che ami.»

Katrina si ritrasse di un paio di pollici e Roran si accorse che lo sguardo le si faceva cupo e assente, come capitava sempre quando rimuginava sul periodo di prigionia trascorso nell'Helgrind. «No, certi problemi non si dovrebbero condividere con nessuno.»

«Ah, non essere triste.» La strinse ancor più forte e la cullò. Desiderava con tutte le sue forze che Eragon non avesse trovato l'uovo di Saphira sulla Grande Dorsale. Dopo un po', quando Katrina si fu calmata e anche lui non fu più tanto teso, le accarezzò la curva del collo. «Su, baciami dolcemente e torniamo a letto, perché sono stanco e voglio dormire.»

Allora lei rise e lo baciò con tutta la tenerezza di cui era capace, poi si distesero sulla branda. Fuori dalla tenda era tutto calmo e silenzioso, tranne il fiume Jiet, che scorreva oltre l'accampamento senza mai rallentare, senza mai fermarsi, e si riversava nei sogni di Roran, che si immaginava in piedi sulla prua di una nave, con Katrina al fianco, e fissava l'Occhio del Cinghiale, il gigantesco vortice.

Quali speranze abbiamo di sopravvivere? si domandò.

♦ ♦ ♦

GLÛMRA

Centinaia di piedi sotto Tronjheim la roccia si apriva in una grotta lunghissima. Da un lato c'era un immobile lago nero dalle profondità insondabili e dall'altro una sponda di marmo. Stalattiti marrone e avorio pendevano gocciolanti dal soffitto, mentre dal fondo si ergevano stalagmiti simili a pugnali; in alcuni punti si univano a formare gonfi pilastri più imponenti dei tronchi secolari della Du Weldenvarden. Sparsi tra i pilastri c'erano mucchi di concime costellati di funghi e ventitré basse casupole di pietra. Una lanterna senza fiamma brillava incandescente accanto a ogni porta. Fatta eccezione per quella luce, regnava l'oscurità.

Dentro una di quelle casupole, Eragon prese posto su una sedia troppo piccola per lui davanti a un tavolo di granito che gli arrivava appena alle ginocchia. Il profumo di formaggio di capra morbido, funghi a fette, lievito, stufato, uova di piccione e brace pervadeva la stanza. Di fronte a lui la madre di Kvîstor, Glûmra, della Famiglia di Mord, piangeva e si strappava i capelli e si colpiva il petto. Sul viso tondo si vedevano ancora i solchi luccicanti lasciati dalle lacrime.

Erano soli. Le quattro guardie - al gruppo si era aggiunto Thrand, un guerriero della scorta di Orik - aspettavano fuori insieme a Hûndfast, l'interprete, che Eragon aveva congedato non appena aveva saputo che la nana parlava la sua lingua.

Dopo l'aggressione, Eragon aveva cercato Orik con la mente e il capoclan aveva insistito perché corresse più veloce possibile negli alloggi dell'Ingeitum, dove sarebbe stato al sicuro. Eragon aveva obbedito, mentre Orik chiedeva ai clan di riaggiornarsi l'indomani mattina poiché si era verificata un'emergenza che richiedeva la sua immediata attenzione. Poi aveva marciato con i suoi guerrieri più baldi e gli stregoni più fidati fino al luogo dell'imboscata e insieme avevano esaminato la scena sia con la magia sia con mezzi più artigianali. Soddisfatto delle informazioni raccolte, Orik era tornato di corsa nelle sue stanze e aveva detto a Eragon: "Abbiamo un sacco di cose da fare, e in pochissimo tempo, per giunta. Prima che la consulta riprenda domani alla terza ora del mattino dobbiamo tentare di stabilire oltre ogni ragionevole dubbio chi ha ordinato l'attacco. Così avremo qualcosa su cui far leva contro gli altri clan. Altrimenti, senza sapere chi sono i nostri nemici, brancoleremo nel buio. Possiamo mantenere il riserbo sulla vicenda fino a domani mattina, ma non oltre. Di sicuro i knurlan avranno sentito l'eco del combattimento nei tunnel sotto Tronjheim e so che già adesso staranno cercando la causa di tanto rumore per paura di un crollo che potrebbe minare la città in superficie." Orik aveva pestato i piedi e maledetto gli antenati dei mandanti, chiunque fossero, poi si era portato le mani ai fianchi e aveva detto: "Se prima la minaccia di una guerra tra clan era solo nell'aria, adesso è alle porte. Dobbiamo muoverci in fretta se vogliamo evitare quell'infausto destino. Abbiamo knurlan da trovare, domande da fare, minacce da lanciare, nani da corrompere e pergamene da rubare... e tutto prima di domattina."

"E io?" aveva chiesto Eragon.

"Tu devi restare qui finché non sapremo se l'Az Sweldn rak Anhûin o qualche altro clan ha un contingente più grande radunato altrove, pronto a ucciderti. Più a lungo riusciremo a tenere nascosto ai tuoi assalitori se sei vivo, morto o ferito, più dovranno guardare le rocce dove posano i piedi."

Sulle prime Eragon fu d'accordo con la proposta di Orik, ma osservando il nano indaffarato a dare ordini a destra e a manca si sentì sempre più a disagio e inutile. Alla fine l'aveva preso per un braccio e gli aveva detto: "Se devo starmene qui a fissare il muro mentre tu cerchi i colpevoli, digrignerò i denti fino a ridurli a spuntoni. Ci dev'essere qualcosa che posso fare per aiutarti. Che mi dici di Kvîstor? Qualcuno della sua famiglia abita a Tronjheim? Sono già stati avvisati della sua morte? In caso contrario, andrò io a portare loro la notizia, perché è per difendere me che è morto."

Orik aveva chiesto alle sue guardie: in effetti la famiglia di Kvîstor viveva a Tronjheim, anzi, più precisamente sotto Tronjheim. Orik si era accigliato e aveva borbottato una strana parola nella lingua dei nani. "Sono abitanti del sottosuolo" aveva risposto, "knurlan che hanno abbandonato la superficie per trasferirsi nelle profondità della terra, tranne qualche sporadica incursione di sopra. In tanti vivono laggiù, soprattutto sotto Tronjheim e il Farthen Dûr, più che altrove, perché da lì possono uscire senza sentirsi proprio fuori, all'aperto, cosa che molti non potrebbero sopportare, essendo così abituati agli spazi chiusi. Non sapevo che Kvîstor fosse uno di loro."

"Ti dispiace se vado a trovare la sua famiglia? Tra queste stanze ci sono delle scale che conducono di sotto, o mi sbaglio? Potrei andarci senza che nessuno lo venga a sapere."

Orik aveva riflettuto un momento, poi aveva annuito. "Hai ragione. Il percorso è abbastanza sicuro e a nessuno verrebbe mai in mente di cercarti tra gli abitanti del sottosuolo. Il primo posto in cui verrebbero a controllare è qui, e ti troverebbero. Va', e non tornare finché non ti mando un messaggero, nemmeno se la Famiglia di Mord ti mette alla porta e devi startene seduto su una stalagmite fino a domani mattina. Però attento, Eragon; quella è gente solitaria, ed estremamente suscettibile se ferita nell'onore; inoltre ha strane abitudini. Procedi cauto, mi raccomando, come se stessi camminando su una lastra di scisto marcio, eh?"

E così, dopo che Thrand fu aggiunto alla sua scorta, accompagnato da Hûndfast, con uno spadino da nano legato in vita, Eragon si era avviato alla più vicina scalinata che conduceva di sotto ed era sceso nelle viscere della terra, più giù di quanto non avesse mai fatto prima. A tempo debito aveva trovato Glûmra e l'aveva informata della morte di Kvîstor, ed eccolo lì seduto ad ascoltarla piangere il figlio trucidato, con gemiti, grida e poi frammenti di parole nella lingua dei nani, cantati in una tonalità ossessiva e dissonante.

Sconcertato dall'intensità del suo dolore, Eragon distolse lo sguardo. Fissò la stufa di steatite verde appoggiata e le consunte incisioni geometriche che ne adornavano i profili. Esaminò il tappeto verde e marrone davanti al focolare, la zangola in un cantuccio e le provviste appese alle travi del soffitto. Guardò il pesante telaio di legno sotto una finestra rotonda con pannelli di vetro color lavanda.

Poi, al culmine della disperazione, Glûmra incrociò lo sguardo di Eragon, si alzò dal tavolo, andò al piano di lavoro della cucina e posò la mano sinistra sul tagliere. Prima che lui potesse fermarla, prese un coltello e si mozzò la prima falange del mignolo, poi gemette e si piegò in due.

Eragon si alzò, lasciandosi sfuggire un grido involontario. Si domandò quale follia avesse sopraffatto la nana e se doveva tentare di fermarla prima che si facesse ancora del male. Aprì la bocca per chiederle se voleva che le curasse la ferita, ma poi ci ripensò, ricordando l'ammonimento di Orik sulle strane abitudini e il profondo senso dell'onore degli abitanti del sottosuolo. Potrebbe considerare la mia offerta un insulto, si disse. Così chiuse la bocca e riprese il suo posto sulla sedia troppo piccola.

Un minuto dopo Glûmra si raddrizzò, trasse un profondo respiro e poi, tranquilla, in silenzio lavò l'estremità infiammata del dito con il brandy, gli strofinò sopra un balsamo giallo e fasciò la ferita. Con il volto di luna ancora pallido per il forte dolore, si accasciò sulla sedia di fronte a Eragon. «Ti ringrazio per avermi portato di persona la notizia della morte di mio figlio, Ammazzaspettri. Sono felice di sapere che è morto con valore, come si conviene a un guerriero.»

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