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«La risposta a cosa?»
«Alla domanda che scegliamo.»
È pazzo, pensò Eragon. Guardandosi intorno in cerca di qualcosa che potesse aiutarlo a distrarre Tenga, vide una serie di animaletti di legno allineati sul davanzale di una finestra a forma di goccia. «Che belle» disse, indicando le statuine. «Chi le ha fatte?»
«Lei... prima di andarsene. Faceva sempre delle cose.» Tenga si alzò di scatto e posò la punta dell'indice sulla prima statuina. «Ecco lo scoiattolo dalla coda fremente, veloce, scattante e ridente.» Il dito passò sulla seconda statuina. «Ecco il cinghiale selvatico, con le sue zanne aguzze... Ecco il corvo...»
Tenga non si accorse di quando Eragon indietreggiò e sollevò il paletto della porta per sgusciare via da Edur Ithindra. Il giovane si rimise lo zaino in spalla e riattraversò il boschetto di querce, allontanandosi dalle cinque colline e dallo stregone folle che vi dimorava.
Per il resto del giorno, e tutto quello dopo, il numero di persone incontrate lungo la strada continuò ad aumentare fino a diventare un flusso pressoché ininterrotto di gente che andava e veniva. Per la maggior parte erano profughi, ma c'erano anche soldati e mercanti. Eragon li evitava quando poteva, altrimenti camminava con il mento affondato nel petto.
Fu così costretto a passare la notte nel villaggio di Agrod'est, venti miglia a nord di Melian. Aveva avuto intenzione di abbandonare la strada molto prima di arrivare al villaggio e trovare riparo in una valletta o in una grotta dove poter riposare fino al mattino, ma a causa della sua scarsa conoscenza di quel territorio calcolò male la distanza e arrivò dalle parti del piccolo centro in compagnia di tre soldati. Andarsene così, a meno di un'ora dalla sicurezza delle mura e dei cancelli di Agrod'est e dal conforto di un letto caldo, avrebbe indotto anche il più ottuso degli ottusi a chiedersi perché stesse cercando di evitare il villaggio. Così strinse i denti e in silenzio ripassò la storia che aveva inventato per giustificare il suo viaggio.
Il sole gonfio fiammeggiava a due dita dall'orizzonte quando Eragon avvistò Agrod'est, un villaggio di medie dimensioni circondato da un'alta e robusta palizzata. Ed era quasi buio quando finalmente lo raggiunse e ne varcò il cancello. Alle sue spalle sentì una guardia chiedere agli uomini d'armi se avessero visto qualcuno dietro di loro sulla strada.
«Non mi pare.»
«Meglio così» replicò la sentinella. «Se c'è qualche ritardatario, dovrà aspettare domattina per entrare.» Poi si rivolse alla guardia sul lato opposto dell'ingresso e gridò: «Chiudi!» Insieme spinsero i due battenti del cancello, alto quindici piedi e rinforzato col ferro, e lo sbarrarono con quattro pali di quercia grossi quanto il torace di Eragon.
Forse temono un assedio, pensò Eragon, e poi sorrise davanti alla propria ingenuità. Be', chi non si aspetta dei guai, di questi tempi? Fino a qualche mese prima avrebbe avuto paura di restare intrappolato ad Agrod'est, ma adesso era sicuro di poter scalare le fortificazioni a mani nude e, rendendosi invisibile con la magia, di poter fuggire senza essere notato. Tuttavia scelse di restare perché era stanco ed evocare un incantesimo avrebbe potuto attirare l'attenzione di altri maghi, se ce n'erano.
Aveva mosso soltanto qualche passo sul viale fangoso che portava nella piazza del villaggio, quando un sorvegliante notturno gli si avvicinò e gli spinse una lanterna proprio sotto il viso. «Altolà! Non sei mai stato ad Agrod'est prima d'ora, vero?»
«Questa è la mia prima visita» rispose Eragon.
Il tarchiato sorvegliante aggrottò la fronte. «Hai una famiglia o degli amici che ti aspettano?»
«No.»
«E allora cosa ti porta qui ad Agrod'est?»
«Niente. Sto viaggiando verso sud per andare a prendere la famiglia di mia sorella e riportarli tutti a Dras-Leona.» La storia parve non avere effetto sul sorvegliante. Forse non mi crede, pensò Eragon, o forse ne ha sentite così tante, di storie come la mia, che non ci fa più caso.
«Allora cerca la Casa del Viandante, vicino al pozzo centrale. Lì troverai vitto e alloggio. E mentre resti qui ad Agrod'est, ti avverto: non tolleriamo assassini, ladri o pervertiti da queste parti. Abbiamo catene e forche robuste che hanno già avuto molti ospiti. Sono stato chiaro?»
«Chiarissimo, signore.»
«E allora vai, e buona fortuna. Ma aspetta! Come ti chiami, straniero?» «Bergan.»
A questa risposta, il sorvegliante si voltò e riprese la sua ronda notturna. Eragon aspettò che la lanterna dell'uomo svanisse dietro un gruppo di case per avvicinarsi al tabellone degli avvisi montato a sinistra dei cancelli.
Lì, inchiodate su una mezza dozzina di manifesti che ritraevano vari criminali, c'erano due pergamene lunghe quasi tre piedi. Una raffigurava Eragon, l'altra Roran, ed entrambe li etichettavano come traditori della Corona. Eragon esaminò le pergamene con attenzione e si stupì per la ricompensa promessa: un'intera contea a chiunque li avesse catturati. Il ritratto di Roran era abbastanza fedele e mostrava persino la barba che si era lasciato crescere da quando era fuggito da Carvahall, ma quello di Eragon lo dipingeva com'era stato prima della Celebrazione del Giuramento di Sangue, quando il suo aspetto era ancora del tutto umano.
Come sono cambiate le cose, pensò.
Riprese a camminare per il villaggio finché non individuò la Casa del Viandante. La sala comune aveva un basso soffitto dalle travi annerite. Gialle candele di sego spandevano una morbida luce tremolante e riempivano l'aria di strati di fumo. Il pavimento era coperto di sabbia e giunchi che scricchiolarono sotto gli stivali di Eragon. Alla sua sinistra c'erano dei tavoli con delle sedie, e un grande camino dove un ragazzetto rigirava un maiale sullo spiedo. Dall'altro lato correva un lungo bancone, una fortezza dai bordi rialzati che proteggeva i barili di birra chiara, scura e quant'altro dalle orde di uomini assetati che cercavano di assalirla da tutte le parti.
C'erano una sessantina di avventori nella sala, gremita fino ai limiti del tollerabile. Il frastuono delle conversazioni sarebbe stato comunque assordante per Eragon dopo tanto tempo passato da solo in viaggio, ma con il suo nuovo sensibilissimo udito gli parve di trovarsi nel bel mezzo di una fragorosa cascata. Non riusciva a concentrarsi sulle singole voci. Ogni volta che captava una parola o una frase, subito la smarriva in una marea ribollente di altre parole. In un angolo, un trio di menestrelli cantava e suonava una parodia di Dolce Aethrid di Dauth, aggiungendo fracasso al fracasso.
Con una smorfia, Eragon si fece strada a fatica tra la folla fino a raggiungere il bancone. Voleva parlare con la cameriera, ma lei era così indaffarata che passarono ben cinque minuti prima che si accorgesse di lui e gli chiedesse: «Cosa prendi?» Aveva ciocche di capelli incollate al viso madido di sudore.
«Avete una stanza, o un angolo appartato dove poter passare la notte?» «Non saprei. Per queste cose devi parlare con la padrona. Adesso scende» disse la donna, indicando una scala immersa nella penombra.
Mentre aspettava, Eragon si appoggiò con la schiena e i gomiti al bancone e prese a studiare la folla. Era un miscuglio di individui: una metà dovevano essere abitanti di Agrod'est venuti a godersi una serata in allegria, gli altri erano uomini e donne - spesso famiglie intere - che stavano migrando verso zone più tranquille del paese. Eragon li identificò facilmente dalle camicie logore e dai pantaloni sporchi e da come se ne stavano rannicchiati sulle sedie, guardando di sottecchi chiunque si avvicinasse. Stavano ben attenti, però, a non fissare direttamente l'ultimo e più piccolo gruppo di avventori del locale: i soldati di Galbatorix. Gli uomini dalle casacche rosse erano i più chiassosi di tutti. Ridevano e gridavano e battevano i pugni guantati di ferro sui tavoli, mentre tracannavano birra a fiumi e tentavano di abbrancare ogni cameriera tanto incosciente da passar loro accanto.
Si comportano così perché sanno che nessuno oserebbe ribellarsi e si divertono a ostentare il loro potere? si chiese Eragon. O lo fanno perché sono stati costretti a unirsi all'esercito di Galbatorix e cercano di affogare il senso di colpa e la paura nell'alcol?
I menestrelli intanto cantavano:
La dolce Aethrid di Dauth dalla chioma fluente Corse da Lord Edel gridando: "Libera il mio amante, O una strega ti trasformerà in un caprone!"
Lord Edel disse ridendo: "Non c'è strega che mi trasformi In un caprone!"
La folla si scostò consentendo a Eragon di scorgere un tavolo addossato a una parete, dove sedeva una donna con il volto nascosto dal cappuccio di un mantello da viaggio nero. Era circondata da quattro uomini, contadini tarchiati con la nuca cotta dal sole e le guance arrossate dall'alcol. Due erano appoggiati alla parete, da un lato e dall'altro della donna, che dominavano con la loro invadente presenza, mentre il terzo se ne stava a cavalcioni su una sedia girata al contrario e il quarto in piedi, con un tallone appoggiato sul bordo del tavolo e il busto proteso in avanti. Gli uomini parlavano e gesticolavano senza freni. Anche se Eragon non poteva sentire quello che diceva la donna, era ovvio che le sue risposte dovevano aver fatto infuriare i contadini, perché i quattro si accigliarono e gonfiarono il petto come galletti arroganti. Uno di loro le puntò addosso un dito minaccioso.
Eragon pensò che alla fine erano brave persone, lavoratori onesti che avevano smarrito le buone maniere in fondo al boccale, un errore che aveva spesso visto fare nei giorni di festa a Carvahall. Garrow non aveva rispetto per gli uomini che sapevano di non reggere l'alcol e che malgrado ciò insistevano a bere, esponendosi al ridicolo in pubblico. "È sconveniente" diceva. "Per giunta, se bevi per dimenticare i guai e non per gusto, dovresti farlo dove non disturbi gli altri."
L'uomo a sinistra della donna tese una mano all'improvviso e le infilò un dito sotto il cappuccio, con l'intenzione di abbassarlo. Con uno scatto fulmineo che Eragon colse a stento, la donna alzò la mano destra e afferrò il polso dell'uomo, poi lo liberò subito e tornò nella posizione precedente. Eragon dubitava che chiunque altro nel locale, compreso l'uomo che la donna aveva toccato, si fosse accorto di quel gesto.
Tuttavia il cappuccio le ricadde sulle spalle, ed Eragon trasalì, sbigottito. La donna era umana, ma somigliava in modo impressionante ad Arya. Le uniche differenze erano gli occhi - rotondi, non a mandorla come quelli di un gatto - e le orecchie, che non terminavano a punta come quelle degli elfi. La donna era bella quanto l'Arya che lui conosceva, solo in maniera meno esotica, più familiare.
Senza esitare, Eragon espanse la mente verso la donna. Doveva sapere chi era.
Non appena ebbe sfiorato la sua coscienza, fu respinto da un colpo mentale che gli annientò la concentrazione, mentre nei confini del cranio sentiva una voce assordante esclamare: Eragon!
Arya?
I loro sguardi s'incrociarono per un istante, poi la folla tornò ad assieparsi davanti a lui bloccandogli la visuale.
Eragon si lanciò dall'altra parte della sala, sgomitando tra i corpi ammassati per liberarsi la strada. I contadini lo squadrarono con diffidenza quando emerse dalla calca, e uno disse: «Sei proprio un gran bifolco a piombare qui fra di noi senza essere stato invitato. Meglio se sparisci, eh?»
Nel tono più diplomatico che riuscì a trovare, Eragon disse: «Miei signori, mi pare di capire che la signora desideri essere lasciata in pace. Vorreste dunque ignorare il desiderio di una donna onesta?»
«Una donna onesta?» rise l'uomo più vicino. «Nessuna donna onesta viaggia da sola.»
«Lasciatemi dunque dissipare i vostri dubbi, perché io sono suo fratello e stiamo andando a vivere da nostro zio a Dras-Leona.»
I quattro si scambiarono occhiate perplesse. Tre di loro cominciarono ad allontanarsi da Arya, ma il più massiccio si piantò a pochi centimetri dal suo viso e, alitandogli in faccia, disse: «Non sono sicuro di crederti, amico. Stai solo cercando di mandarci via per poterla avere tutta per te.»
Non è molto lontano dalla verità, pensò Eragon.
Parlando a bassa voce perché soltanto quell'uomo potesse sentirlo, disse: «Ti assicuro che lei è mia sorella. Per favore, non voglio mettermi a discutere con te. Saresti così gentile da andartene?»
«No, perché penso che tu sia un moccioso bugiardo.»
«Suvvia, sii ragionevole. Non c'è bisogno di litigare, la notte è ancora giovane, godiamoci la musica e la birra. Non lasciamo che un piccolo equivoco ci rovini la serata.»
Con suo grande sollievo, l'uomo si calmò ed emise un grugnito sprezzante. «Non mi metterei comunque a litigare con un ragazzetto come te» disse. Si voltò e raggiunse gli amici al bancone.
Con gli occhi fissi sulla folla, Eragon scivolò a sedere dietro il tavolo, accanto ad Arya. «Che ci fai qui?» le chiese, muovendo appena le labbra.
«Ti cercavo.»
Sorpreso, la guardò, e lei inarcò un sopracciglio. Lui tornò a fissare la calca rumorosa e fingendo di sorridere le domandò: «Sei da sola?»
«Non più... Hai preso un letto per la notte?»
Lui scosse il capo.
«Bene. Io ho già preso una stanza. Possiamo parlare lì.»
Si alzarono insieme, ed Eragon seguì Arya verso le scale in fondo al locale. I gradini traballanti scricchiolarono sotto i loro piedi mentre salivano al primo piano. Una sola candela illuminava lo squallido corridoio tappezzato con pannelli di legno. Arya lo guidò fino all'ultima porta a destra, e dall'ampia manica del mantello trasse una chiave di ferro. Aprì la porta, entrò nella stanza, aspettò che Eragon la seguisse e poi richiuse di nuovo la porta a chiave.
Un debole chiarore arancione filtrava dalla finestra piombata in fondo alla stanza. La luce proveniva da una lanterna appesa dall'altro lato della piazza centrale di Agrod'est. Eragon riuscì a scorgere la sagoma di una lampada a olio su un basso tavolino alla sua destra.
«Brisingr» mormorò, e accese lo stoppino con uno schiocco delle dita. Malgrado la luce della lampada, la stanza era ancora immersa nella penombra. Era tappezzata di pannelli come il corridoio, e il legno color castagna assorbiva la gran parte della luce, dando l'impressione che l'ambiente piccolo e angusto fosse schiacciato da un peso verso l'interno. A parte il tavolino, l'unico altro mobile era un letto singolo con una coperta ripiegata sulla spalliera. Sul materasso c'era una piccola borsa di provviste.
Eragon e Arya rimasero immobili qualche istante, l'uno di fronte all'altra. Poi Eragon cominciò a svolgere la striscia di tessuto che gli cingeva la testa, mentre Arya apriva la spilla che le fermava il mantello intorno alle spalle e lo posava sul letto. Portava un lungo abito color verde foresta, il primo vestito femminile che Eragon le avesse mai visto indossare.
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