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Tese una mano verso Nasuada, ma indietreggiò quando lei lo minacciò col coltello. «Non t'immischiare» ringhiò la regina a denti stretti.
Fadawar si tagliò l'avambraccio destro. Uno schizzo di sangue fiottò dai muscoli rigidi. Li sta contraendo, pensò Nasuada. Sperò che l'errore bastasse a fiaccare la sua resistenza.
Nasuada non riuscì a fare a meno di gemere quando il coltello le lacerò la carne. La lama affilata la bruciò come un ferro incandescente. A metà dell'incisione, il braccio sinistro ebbe uno spasmo. Il coltello le sfuggì e le procurò una lunga ferita slabbrata, due volte più profonda delle precedenti. Trattenne il fiato cercando di combattere il dolore atroce. Non ce la faccio, pensò. Non posso... non posso! Non resisto più. Preferisco morire... Oh, ti prego, fa' che finisca! Le diede un certo sollievo indulgere in quelli e altri disperati appelli silenziosi, ma in cuor suo sapeva che non si sarebbe mai arresa.
Per l'ottava volta, Fadawar posò il coltello sopra l'avambraccio, tenendolo sospeso a un quarto di pollice dalla pelle livida. Rimase immobile mentre il sudore gli gocciolava sugli occhi e le ferite stillavano lacrime rosse. Sembrava che il coraggio stesse per abbandonarlo, poi, d'improvviso, ringhiò e con un colpo deciso si sfregiò il braccio.
La sua esitazione infuse nuovo vigore in Nasuada. Fu pervasa da una strana euforia che trasformò il dolore in una sensazione quasi piacevole. Pareggiò il conto con Fadawar, poi, spinta da un improvviso sprezzo del pericolo, si tagliò ancora una volta il braccio.
«Fai meglio di così» mormorò.
La prospettiva di infliggersi due tagli di fila - uno per pareggiare il numero di Nasuada e uno per superarla - parve intimidire Fadawar. Batté le palpebre, si inumidì le labbra e aggiustò la presa sul coltello per tre volte prima di abbassare l'arma sul braccio.
La sua lingua guizzò ancora una volta a bagnare le labbra.
Uno spasmo gli attraversò la mano sinistra, e il coltello gli cadde dalle dita contratte, conficcandosi nel terreno. Fadawar lo raccolse. Sotto la tunica, il suo torace si alzava e si abbassava a ritmo frenetico. Alzò la lama e la premette sul braccio: un rivoletto di sangue sgorgò subito dalla ferita. Fadawar serrò la mascella, poi fu scosso da un potente brivido e si piegò in due, premendosi le braccia ferite contro la pancia. «Mi arrendo» disse.
I tamburi cessarono di colpo.
Il silenzio durò solo un istante prima che re Orrin, Jörmundur e tutti gli altri riempissero il padiglione di grida di esultanza.
Nasuada non badò ai loro commenti. Cercando a tentoni dietro la schiena, trovò lo scranno e cadde a sedere di schianto, lieta di alleviare il peso dalle gambe prima che le cedessero. Si sforzò di restare cosciente mentre la vista le si offuscava; l'ultima cosa che voleva era svenire davanti agli uomini della tribù. Una delicata pressione sulla spalla l'avvertì che Farica era al suo fianco, con una pila di bende.
«Mia signora, posso fasciarti?» chiese Farica, ansiosa ed esitante insieme, come se non potesse prevedere la reazione di Nasuada.
Nasuada si limitò ad annuire.
Mentre Farica cominciava a fasciarle le braccia con lunghe bende di lino, Naako e Ramusewa si avvicinarono. S'inchinarono al suo cospetto, e Ramusewa disse: «Mai nessuno prima d'ora aveva resistito a tante ferite durante la Prova dei Lunghi Coltelli. Sia tu che Fadawar avete dimostrato il vostro coraggio, ma senz'ombra di dubbio tu sei la vincitrice. Racconteremo alla nostra gente della tua impresa, e loro ti giureranno fedeltà.»
«Grazie» mormorò Nasuada. Chiuse gli occhi; il dolore pulsante alle braccia la stordiva.
«Mia signora.»
Intorno a sé Nasuada sentiva un confuso mormorio di voci, che non aveva alcuna voglia di decifrare; meglio ritrarsi nel profondo del suo essere, dove il dolore non era più così insistente e minaccioso. Fluttuò nel grembo di uno spazio nero sconfinato, illuminato da macchie informi di colori cangianti.
L'intima tregua fu interrotta dalla voce di Trianna che diceva: «Fermati, donna, e togli quelle bende alla tua signora, affinché io possa guarirla.»
Nasuada aprì gli occhi e vide Jörmundur, re Orrin e Trianna in piedi davanti a lei. Fadawar e i suoi uomini avevano lasciato il padiglione. «No» disse Nasuada.
I tre la guardarono sorpresi, poi Jörmundur disse: «Nasuada, la tua mente è offuscata. La prova è finita. Non devi più sopportare queste ferite dolorose. Dobbiamo comunque arrestare l'emorragia.»
«Se ne sta già occupando Fatica. Mi farò ricucire da un guaritore, spalmare di impiastri per ridurre il gonfiore, e basta.»
«Ma perché?»
«La Prova dei Lunghi Coltelli prevede che gli sfidanti lascino guarire le ferite seguendo il corso della natura. Altrimenti non potremmo sperimentare la piena misura del dolore che la prova comporta. Se violassi la regola, Fadawar sarebbe di diritto il vincitore.»
«Vuoi almeno permettermi di alleviarti la sofferenza?» chiese Trianna. «Conosco parecchi incantesimi che possono eliminare qualsiasi dolore. Se mi avessi consultata prima, avrei potuto sistemare le cose in maniera tale che se anche ti fossi mozzata il braccio non avresti sentito niente.»
Nasuada rise e la testa le ciondolò di lato, come se fosse ubriaca. «La mia risposta allora sarebbe stata la stessa di adesso: i trucchi sono disonorevoli. Dovevo vincere la prova senza stratagemmi perché la mia autorità non venisse messa in discussione in futuro.»
In un tono di garbata freddezza, re Orrin disse: «E se avessi perso?»
«Non potevo perdere. Mi fosse anche costata la vita, non avrei mai permesso a Fadawar di ottenere il controllo dei Varden.»
Orrin la studiò con espressione severa. «Ti credo. Solo... la lealtà delle tribù meritava un tale sacrificio? Tu non sei sostituibile.»
«La lealtà delle tribù? No. Ma l'effetto di questa vicenda andrà oltre le tribù, come dovresti ben sapere. Servirà a unificare le nostre forze. E per me è una ricompensa abbastanza preziosa da affrontare un'orda di orribili morti.»
«Ti prego di dirmi allora che cosa avrebbero guadagnato i Varden se tu oggi fossi morta. Niente. Avresti lasciato in eredità sconforto, caos e probabilmente rovina.»
Ogni volta che Nasuada beveva vino, idromele, e soprattutto liquori forti, diventava estremamente prudente nel parlare e nel muoversi, perché anche se non ne sentiva subito gli effetti, sapeva che l'alcol le annebbiava il giudizio e la coordinazione, e non voleva comportarsi in modo sconveniente o dare agli altri un vantaggio su di lei.
Ubriaca di dolore com'era, soltanto in seguito si rese conto che avrebbe dovuto essere prudente nella sua discussione con Orrin: era come se avesse tracannato tre boccali di idromele di more dei nani. Se l'avesse fatto, il suo acuto senso di cortesia le avrebbe impedito di ribattere: «Ti preoccupi come un vecchio, Orrin. Ho dovuto, e ormai quello che è fatto è fatto. È inutile adesso agitarsi tanto... Ho corso un rischio, sì. Ma non possiamo sconfiggere Galbatorix se non osiamo avvicinarci all'orlo del baratro. Tu sei un re. Dovresti capire che il pericolo è il mantello di cui una persona si riveste quando ha l'arroganza di decidere il destino degli altri.»
«Capisco perfettamente» ringhiò Orrin. «La mia famiglia e io abbiamo difeso il Surda dalle invasioni dell'Impero ogni giorno della nostra vita per generazioni, mentre i Varden si nascondevano nel Farthen Dûr e approfittavano della generosità di re Rothgar.» Il mantello gli danzò sulle spalle quando all'improvviso re Orrin si voltò e uscì dal padiglione.
«Pessima mossa, mia signora» osservò Jörmundur.
Nasuada fece una smorfia quando Farica strinse le bende. «Lo so» disse senza fiato. «Mi occuperò di guarire il suo orgoglio ferito domani.»
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C'era un vuoto nei ricordi di Nasuada: un'assenza di percezioni così assoluta che si rese conto che era passato del tempo solo quando sentì Jörmundur che le scrollava le spalle, urlando qualcosa. Le ci volle qualche istante per decifrare i suoni che gli uscivano dalla bocca, e poi udì: «... continua a guardarmi, maledizione! Tieni gli occhi aperti. Non ti riaddormentare, altrimenti non ti sveglierai mai più.»
«Puoi lasciarmi andare, Jörmundur» disse lei, e abbozzò un fievole sorriso. «Sto bene, adesso.»
«Già, e mio zio Undset era un elfo.»
«Perché, non lo era?»
«Bah! Sei tale e quale a tuo padre: ignori la prudenza quando si tratta della tua vita. Le tribù possono anche marcire nelle loro dannate usanze, per quello che m'importa. Farò venire un guaritore. Non sei in grado di prendere decisioni.»
«Ecco perché ho aspettato la sera. Vedi, il sole è quasi tramontato. Ho tutta la notte per riposare, e domani sarò in grado di occuparmi degli affari che richiedono la mia attenzione.»
Farica comparve al suo fianco. «Oh, signora, ci avete fatto prendere un tale spavento.»
«Un colpo, per meglio dire» borbottò Jörmundur.
«Be', ora sto meglio.» Nasuada raddrizzò la schiena - era ancora seduta sullo scranno - ignorando il bruciore lancinante agli avambracci. «Voi due potete andare. Jörmundur, manda a dire a Fadawar che può restare a capo della sua tribù, a patto che mi giuri lealtà come capitano. È un condottiero troppo abile per perderlo. Farica, mentre torni alla tua tenda, per favore fai sapere ad Angela l'erborista che ho bisogno dei suoi servigi. Aveva detto che mi avrebbe preparato delle miscele di tonici e pozioni.»
«Non ti lascio da sola in queste condizioni» protestò Jörmundur.
Farica annuì. «Ti chiedo scusa, mia signora, ma sono d'accordo con lui. Non è sicuro.»
Nasuada scoccò un'occhiata all'ingresso del padiglione, per assicurarsi che nessuno dei Falchineri fosse a portata d'orecchio, poi ridusse la voce a un sussurro: «Non sarò sola.» Jörmundur inarcò le sopracciglia, e un'espressione allarmata balenò sul volto di Farica. «Io non sono mai sola. Capite?»
«Hai preso delle... precauzioni, mia signora?» chiese Jörmundur.
«Sì.»
I due angeli custodi parvero sconcertati dalla sua affermazione, e Jörmundur disse: «Nasuada, la tua sicurezza è una mia responsabilità. Devo sapere quale tipo di precauzione supplementare hai preso e chi di preciso ha il permesso di avvicinarti.»
«No» rispose lei in tono gentile. Notando il dolore e l'indignazione negli occhi dell'ufficiale, continuò: «Non che io dubiti della tua lealtà... non sia mai. Ma questa è una cosa che devo tenere per me. Per il bene della mia pace interiore, ho bisogno di avere un'arma che nessun altro può vedere, un coltello infilato nella manica, se vuoi. Considerala una mia debolezza, ma non tormentarti pensando che la mia scelta sia una critica al modo in cui compi i tuoi doveri.»
«Mia signora.» Jörmundur s'inchinò, una formalità che non usava quasi mai con lei.
Nasuada alzò una mano, dando loro il permesso di congedarsi, e i due si affrettarono a uscire dal padiglione.
Per un lungo minuto, forse due, l'unico suono che udì furono le rauche strida dei corvi che volavano in circolo sull'accampamento dei Varden. Poi da dietro le sue spalle provenne un lieve fruscio, come di un topolino in cerca di cibo. Si voltò e vide Elva sgusciare dal suo nascondiglio dietro due pannelli di tessuto nella sala principale del padiglione.
Nasuada la osservò.
La crescita innaturale della bambina continuava. Quando Nasuada l'aveva incontrata la prima volta, non molto tempo prima, Elva aveva l'aspetto di una bambina di tre o quattro anni. Adesso sembrava che ne avesse sei. Il suo semplice abito era tutto nero, tranne che per il colletto e i polsini viola. I lunghi capelli lisci erano ancora più neri, un vuoto liquido che le arrivava fino alle reni. Il suo viso dai lineamenti sottili era pallido come la luna, dato che di rado si avventurava all'aperto. Il marchio del drago sulla fronte riluceva argenteo. E i suoi occhi violetti avevano un'aria cinica e stanca: il risultato della benedizione di Eragon, che si era rivelata una maledizione, perché la condannava a sopportare il dolore degli altri e a cercare di evitarlo. La recente battaglia l'aveva quasi uccisa, con migliaia di agonie a tormentarle la mente, anche se uno stregone del Du Vrangr Gata l'aveva indotta in uno stato di sonno artificiale per tutta la durata degli scontri, nel tentativo di proteggerla. Solo da poco la ragazzina aveva ricominciato a parlare e a interessarsi a quanto la circondava.
Si asciugò la piccola bocca col dorso della mano, e Nasuada le chiese: «Sei stata male?»
Elva si strinse nelle spalle. «Al dolore sono abituata, ma non è mai facile resistere all'incantesimo di Eragon... Sai, non mi impressiono facilmente, Nasuada, ma mi ha colpito la tua forza nel resistere a così tante ferite.»
Sebbene Nasuada l'avesse sentita parlare molte volte, la voce di Elva le ispirava ancora un profondo turbamento, perché era l'amara, aspra voce di un'adulta rotta dalle esperienze del mondo, e non quella di una bambina. Si sforzò di ignorarla e rispose: «Tu sei più forte. Io non ho dovuto sopportare anche il dolore di Fadawar. Ti ringrazio di essere rimasta con me. So quanto dev'esserti costato, e ti sono riconoscente.»
«Riconoscente? Ha! Per me è una parola vuota, Lady Furianera.» Le labbra sottili di Elva si arricciarono in una parvenza di sorriso. «Hai qualcosa da mangiare? Sto morendo di fame.»
«Farica ha lasciato del pane e del vino dietro quelle pergamene» disse Nasuada, indicando il fondo del padiglione. Osservò la bambina avventarsi sul cibo e divorare il pane, riempiendosi la bocca. «Almeno non dovrai vivere così ancora a lungo. Non appena Eragon tornerà, ti libererà dall'incantesimo.»
«Può darsi.» Dopo aver fatto sparire mezza pagnotta, Elva fece una pausa. «Ho mentito a proposito della Prova dei Lunghi Coltelli, sai.»
«Che vuoi dire?»
«Avevo previsto che avresti perso, non vinto.»
«Cosa?»
«Se avessi permesso agli eventi di seguire il loro corso, i nervi ti avrebbero ceduto al settimo taglio, e adesso ci sarebbe Fadawar seduto al tuo posto. Perciò ti ho detto quello che avevi bisogno di sentirti dire per vincere.»
Nasuada si sentì percorrere da un brivido gelido. Se quello che Elva diceva era vero, allora era in debito più che mai con la bambina strega. Eppure non le piaceva essere manipolata, anche se per il proprio bene. «Capisco. A quanto pare devo ringraziarti ancora.»
Elva scoppiò a ridere, un suono secco e stridulo. «E non ti piace per niente di doverlo fare, eh? Non importa. Non devi temere di offendermi, Nasuada. Noi ci siamo utili a vicenda, tutto qui.»
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