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Quando sentì la pelle formicolare, Eragon recise il legame con la gemma. Felice della novità e dell'improvviso senso di benessere, scoppiò a ridere, poi raccontò ad Arya cosa aveva scoperto. «Brom deve averci infilato ogni briciolo di energia risparmiata nel suo soggiorno a Carvahall.» Rise di nuovo, stupefatto. «Tutti quegli anni... Con quello che c'è dentro Aren potrei distruggere un intero castello con un solo incantesimo.»
«Sapeva che il nuovo Cavaliere ne avrebbe avuto bisogno quando l'uovo di Saphira si fosse dischiuso» osservò Arya. «E poi sono sicura che Aren fosse un mezzo per proteggersi se avesse dovuto combattere contro uno Spettro o qualche altro formidabile avversario. Non è un caso che sia riuscito a eludere i suoi nemici per buona parte di un secolo... Fossi in te, risparmierei l'energia che ti ha lasciato per un momento di estrema necessità, e ne aggiungerei ogni volta che ti è possibile. È una risorsa preziosissima. Non dovresti sprecarla.»
No, pensò Eragon, non lo farò. Si rigirò l'anello sul dito, ammirando il suo brillio alla luce del falò. Da quando Murtagh mi ha rubato Zar'roc, questo anello, la sella di Saphira e Fiammabianca sono le uniche cose che mi restano di Brom, e anche se i nani mi hanno portato Fiammabianca dal Farthen Dûr, mi capita di rado di cavalcarlo di questi tempi. Aren è davvero l'unica cosa che me lo ricorda... La mia unica eredità. Quanto vorrei che fosse ancora vivo! Non avrò mai l'occasione di parlargli di Oromis, di Murtagh, di mio padre... Oh, l'elenco è infinito. Che cos'avrebbe detto dei miei sentimenti per Arya? Eragon sorrise amaro. Lo so che cosa mi avrebbe detto: mi avrebbe rimproverato di essere uno sciocco accecato dall'amore, che spreca le sue energie per una causa persa... E avrebbe avuto ragione, immagino, ma che cosa posso farci? Lei è l'unica femmina con cui vorrei stare.
Il fuoco crepitò e si levò una nuvola turbinante di scintille. Eragon fissava il falò con gli occhi semichiusi, riflettendo sulle rivelazioni di Arya. Poi gli tornò in mente una domanda che lo tormentava fin dalla battaglia delle Pianure Ardenti. «Arya, i draghi crescono più in fretta delle dragonesse?»
«No. Perché me lo chiedi?»
«Per via di Castigo. Ha soltanto pochi mesi, ma è già grande quasi quanto Saphira. Non capisco.»
Arya raccolse uno stelo secco e cominciò a tracciare sul terreno i sinuosi glifi della scrittura elfica, la Liduen Kvaedhí. «È molto probabile che Galbatorix abbia accelerato la crescita di Castigo per consentirgli di combattere contro Saphira.»
«Ah... Ma non è pericoloso? Oromis mi ha detto che se avesse usato la magia per darmi la forza, la velocità, la resistenza e tutte le altre capacità che mi servivano, non le avrei assimilate come se le avessi conquistate nella maniera consueta, col duro esercizio. E aveva ragione. Anche adesso, i cambiamenti che i draghi hanno provocato sul mio corpo durante l'Agaetí Blödhren a volte mi colgono di sorpresa.»
Arya annuì e continuò a tracciare i glifi nella polvere. «È possibile ridurre gli effetti indesiderati di certi incantesimi, ma è un processo lungo e difficile. Se vuoi conquistare la vera padronanza del tuo corpo, è meglio seguire la strada tradizionale. La trasformazione che Galbatorix ha forzato su Castigo dev'essere incredibilmente inquietante per lui. Castigo adesso ha il corpo di un drago quasi adulto, ma la sua mente è ancora molto giovane.»
Eragon si accarezzò i calli sulle nocche. «Sai anche perché Murtagh è così potente... molto più potente di me?»
«Se lo sapessi, capirei anche come ha fatto Galbatorix ad aumentare la propria forza a livelli innaturali, ma ahimè, non lo so.»
Ma Oromis sì, pensò Eragon. O almeno, l'elfo aveva accennato a una spiegazione, pur senza approfondire l'argomento con Eragon e Saphira. Non appena fossero tornati nella Du Weldenvarden, Eragon avrebbe chiesto al vecchio Cavaliere la verità. Adesso deve rivelarcela! Per colpa della nostra ignoranza Murtagh ci ha sconfitti, e avrebbe potuto facilmente portarci da Galbatorix, se avesse voluto. Eragon stava per raccontare ad Arya i commenti di Oromis, ma all'ultimo momento cambiò idea, perché si rese conto che il vecchio maestro non avrebbe tenuto nascosto un fatto così decisivo per oltre cent'anni se il segreto non fosse stato della massima importanza.
Arya appose un segno finale alla frase che aveva scritto sul terreno. Eragon si sporse e lesse: Alla deriva sul mare del tempo, il dio solitario vaga da sponda a sponda, custode delle leggi delle stelle.
«Che cosa significa?»
«Non lo so» rispose lei, e cancellò la frase con un gesto della mano.
«Come mai» chiese Eragon, parlando lentamente per mettere ordine nei pensieri «nessuno si riferisce ai draghi dei Rinnegati chiamandoli per nome? Diciamo "il drago di Morzan" oppure "il drago di Kialandí", ma non pronunciamo mai i loro nomi. Eppure erano importanti quanto i loro Cavalieri! Non ricordo nemmeno di averli visti sulle pergamene che mi ha dato Oromis... eppure dovevano esserci... Sì, sono sicuro che c'erano, ma per qualche ragione non mi sono rimasti in mente. Non è strano?» Arya fece per rispondere, ma aveva soltanto aperto la bocca quando Eragon proseguì. «Per una volta sono contento che Saphira non sia qui. Mi vergogno di non essermene accorto prima. Perfino tu, Arya, e Oromis e tutti gli altri elfi che ho incontrato vi rifiutate di chiamarli per nome come se fossero animali ottusi, indegni di questo onore. Lo fate di proposito? È perché un tempo erano vostri nemici?»
«Non l'hai imparato in nessuna delle tue lezioni?» chiese Arya, sinceramente sorpresa.
«Mi pare» disse lui «che Glaedr abbia detto a Saphira qualcosa del genere, ma non ne sono sicuro. Ero impegnato nelle flessioni della Danza del Serpente e della Gru, perciò non stavo molto attento a quello che faceva Saphira.» Sorrise imbarazzato e si sentì in dovere di spiegare. «A volte avevo una gran confusione in testa. Oromis mi parlava mentre io ascoltavo i pensieri di Saphira e lei e Glaedr comunicavano con le loro menti. Quel che è peggio, Glaedr usa di rado un linguaggio riconoscibile quando comunica con Saphira; in genere ricorre a immagini, odori e sensazioni al posto delle parole. Per esempio, invece dei nomi manda impressioni delle persone e degli oggetti.»
«Ricordi qualcosa di quello che disse, che fosse a parole oppure no?»
Eragon esitò. «So solo che si trattava di un nome che non era un nome, o qualcosa del genere. Allora non ho capito granché.»
«Quello di cui parlava» disse Arya «era la Du Namar Aurboda, la Revoca dei Nomi.»
«La Revoca dei Nomi?»
Arya ricominciò a scrivere nella polvere con lo stelo secco. «È uno degli eventi più importanti che ebbero luogo durante il conflitto tra Cavalieri e Rinnegati. Quando i draghi si resero conto che tredici di loro erano traditori... che quei tredici stavano aiutando Galbatorix a sterminare il resto della loro razza e che nessuno sarebbe riuscito a fermare il massacro... si infuriarono a tal punto che tutti i draghi non appartenenti ai Rinnegati unirono le loro forze e misero a segno una delle loro inspiegabili magie. Insieme, privarono i tredici dei loro nomi.»
Eragon si sentì schiacciato da un senso di timorosa ammirazione. «Ma com'è possibile?»
«Non ti ho appena detto che è inspiegabile? Tutto quello che sappiamo è che dopo che i draghi ebbero evocato l'incantesimo, nessuno riuscì più a pronunciare i nomi dei tredici: quelli che li ricordavano li dimenticarono presto, e sebbene si possano leggere sulle pergamene e sulle lettere dove vennero scritti, e persino copiarli, se guardi un glifo alla volta, sono incomprensibili. I draghi risparmiarono Jarnunvösk, il primo drago di Galbatorix, perché non fu colpa sua se fu ucciso dagli Urgali, e Shruikan, perché non ha scelto di servire Galbatorix, ma è stato costretto dallo stesso Galbatorix e da Morzan.»
Che destino orribile, perdere il proprio nome, pensò Eragon con un brivido. Se c'è una cosa che ho imparato da quando sono diventato Cavaliere è che mai e poi mai vorresti avere un drago per nemico. «E i loro veri nomi?» chiese. «Furono cancellati anche quelli?»
Arya annuì. «Veri nomi, nomi di nascita, soprannomi, cognomi, titoli. Tutto. Il risultato fu che i tredici diventarono poco più di semplici animali. Non potevano più dire "Mi piace questo" oppure "Non mi piace quest'altro" e nemmeno "Io ho le squame verdi", perché dirlo avrebbe implicato nominare se stessi. Non potevano nemmeno chiamarsi draghi. Parola dopo parola, l'incantesimo revocò tutto ciò che li definiva come creature pensanti, e i Rinnegati non poterono far altro che assistere impotenti al silenzioso declino dei propri draghi nella più assoluta ignoranza. L'esperienza fu così devastante che almeno cinque dei tredici draghi e parecchi Rinnegati impazzirono.» Arya fece una pausa per esaminare un glifo appena disegnato, poi lo cancellò e lo riscrisse. «La Revoca dei Nomi è il motivo principale per cui molti ora credono che i draghi non fossero altro che animali da cavalcare per spostarsi da un luogo all'altro.»
«Non lo crederebbero, se avessero conosciuto Saphira» dichiarò Eragon. Arya sorrise. «Già.» Con un gesto elegante della mano, completò l'ultima frase. Eragon tese il collo e si spostò più vicino per decifrare i glifi che lei aveva scritto. L'illusionista, l'enigmatico, il protettore dell'equilibrio, il multiforme che trova la vita nella morte e che non teme alcun male; colui che cammina attraverso le porte.
«Che cosa ti ha spinto a scrivere questi glifi?»
«Il pensiero che molte cose non sono come appaiono.» Nuvolette di polvere si alzarono dalle sue dita quando l'elfa spazzò il terreno con la mano per cancellare i glifi dalla faccia della terra.
«Qualcuno ha mai tentato di scoprire il vero nome di Galbatorix?» chiese Eragon. «Potrebbe essere il modo più rapido per porre fine a questa guerra. Credo che sia l'unica speranza che abbiamo di sconfiggerlo in battaglia, se devo essere sincero.»
«Perché, finora non sei stato sincero?» chiese Arya, con uno scintillio negli occhi.
Eragon non poté fare a meno di sorridere a quella domanda. «Certo che sì. È soltanto una figura retorica.»
«Alquanto mediocre» disse lei. «A meno che tu non abbia l'abitudine di mentire.»
Eragon rimase sconcertato, poi riprese il filo del discorso e disse: «So che sarebbe difficile scoprire il vero nome di Galbatorix, ma se tutti gli elfi e tutti i membri dei Varden che conoscono l'antica lingua lo cercassero, sono sicuro che ci riusciremmo.»
Come un pallido vessillo sbiancato dal sole, lo stelo d'erba secco pendeva tra il pollice e l'indice di Arya, tremando a ogni pulsazione delle sue vene. Afferrandone la punta con l'altra mano, Arya strappò in due lo stelo nel senso della lunghezza, poi fece lo stesso con le due metà, dividendolo in quattro. A quel punto cominciò a intrecciare le striscioline formando una sorta di bastoncino e disse: «Il vero nome di Galbatorix non è un segreto. Un Cavaliere e due maghi di razza elfica l'hanno scoperto per conto proprio, a molti anni di distanza l'uno dall'altro.»
«Davvero?» esclamò Eragon.
Imperturbabile, Arya colse un altro filo d'erba, lo ridusse a striscioline, le inserì nei buchi del suo bastoncino attorcigliato e ricominciò a intrecciare in un'altra direzione. «Possiamo solo chiederci se Galbatorix stesso conosca il proprio vero nome. Io credo che non lo conosca perché, qualunque esso sia, il suo vero nome dev'essere così terribile che non potrebbe continuare a vivere se lo sentisse.»
«A meno che non sia tanto malvagio o pazzo che la verità non ha il potere di sconvolgerlo.»
«Può darsi.» Le agili dita di Arya si muovevano così in fretta, strappando, intrecciando, tessendo, da essere pressoché invisibili. Raccolse altri due fili d'erba. «Galbatorix sa di avere un vero nome, come tutte le creature e le cose, e che questo rappresenta la sua potenziale debolezza. Così, qualche tempo prima di avventurarsi nella campagna contro i Cavalieri, lanciò un incantesimo che uccide chiunque usi il suo vero nome. E dato che non sappiamo come funziona questo incantesimo, non possiamo difenderci. Capisci dunque perché abbiamo abbandonato questo sentiero. Oromis è uno dei pochi coraggiosi a continuare la ricerca del nome di Galbatorix, anche se in modo indiretto.» Con espressione soddisfatta, Arya tese le mani coi palmi rivolti all'insù. Su di essi era adagiata una deliziosa nave d'erba verde e bianca. Non era lunga più di quattro pollici, ma era così dettagliata che Eragon poté scorgere i banchi dei rematori, le sartie lungo i parapetti e gli oblò grandi quanto semini di lampone. C'era un solo albero centrale, e la prua ricurva aveva le sembianze di una testa e di un collo di drago proteso nel vuoto.
«È bellissima» mormorò.
Arya avvicinò le labbra alla nave e sussurrò: «Flauga.» Vi soffiò sopra e la nave si levò in volo dalle sue mani per navigare intorno al fuoco; poi, acquistando velocità, puntò la prua verso l'alto e si allontanò nelle profondità stellate del cielo notturno.
«Per quanto volerà?»
«Per sempre» rispose lei. «Trae energia dalle piante per volare. Ovunque vi siano piante, la nave volerà.»
Lì per lì Eragon trovò l'idea affascinante, ma poi pensò che era triste che la graziosa nave d'erba dovesse vagare fra le nuvole per il resto dell'eternità, senza altra compagnia se non gli uccelli. «Immagina le storie che la gente racconterà negli anni a venire.»
Arya intrecciò le dita come se volesse costringerle a star ferme. «Al mondo esistono tante cose strane. Più a lungo vivi e più lontano viaggi, più cose strane vedrai.»
Eragon contemplò le fiamme guizzanti del falò per qualche minuto, poi disse: «Se è così importante proteggere il proprio vero nome, non dovrei evocare un incantesimo per impedire a Galbatorix di usare il mio vero nome contro di me?»
«Fallo, se vuoi» disse Arya, «ma dubito che sia necessario. I veri nomi non sono così facili da scoprire. Galbatorix non ti conosce abbastanza da indovinare il tuo, e se fosse dentro la tua mente, capace di esaminare ogni tuo pensiero e ricordo, allora saresti già suo, con o senza vero nome. Se può consolarti, probabilmente nemmeno io saprei indovinarlo.»
«Davvero?» disse lui. Era contento, ma al tempo stesso dispiaciuto che lei fosse convinta di non conoscerlo così a fondo.
Lei lo guardò, poi abbassò lo sguardo. «Già, credo proprio di no. Tu sapresti indovinare il mio?»
«No.»
Il silenzio calò sul bivacco. Nel cielo, le stelle brillavano fredde e bianche. Un vento si levò da est e lambì la pianura, frustando l'erba con un gemito lungo e acuto, come se lamentasse la perdita di una persona cara. Quando arrivò al bivacco, le braci ripresero vigore e una vorticosa criniera di scintille volò verso ovest. Eragon curvò le spalle e si strinse il colletto della casacca. C'era qualcosa di ostile nel vento: lo sferzava con insolita violenza e sembrava isolare lui e Arya dal resto del mondo. Sedevano immobili, naufraghi sulla loro isoletta di luce e calore, mentre la poderosa onda d'aria passava, ululando la sua pena feroce nella vuota distesa di terra.
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